Etos del sacrificio, passione per il mondo e filosofia d’occasione – Giuseppe Moscati

Giuseppe Moscati, dottore di ricerca in Filosofia e Scienze Umane e collaboratore del Dipartimento di Scienze filosofiche dell’Università degli Studi di Perugia, si occupa di tematiche etico-politiche e socio-pedagogiche, è giornalista pubblicista, redattore della rivista Rocca per quanto riguarda la Filosofia e la Letteratura contemporanea, scrive sulla terza pagina di alcuni quotidiani nazionali, come l’Avanti!, cura una rubrica di Letteratura contemporanea (Nuova Antologia) e filosofica (Maestri del nostro tempo). Tra le sue ricerche, quella sulla nonviolenza è stata oggetto di numerosi studi apparsi in riviste di Filosofia, come il Bollettino della Società filosofica italiana, la Rivista di storia della filosofia e altre. Insieme a Thomas Casadei ha curato, per la Fondazione Centro studi Aldo Capitini, il carteggio Aldo Capitini – Guido Calogero, Lettere (1936-1968) e, come Segretario dell’Associazione Nazionale Amici di Aldo Capitini, il volume Il pensiero e le opere di Aldo Capitini nella coscienza delle nuove generazioni. Con la pubblicazione dell’opera Etos del sacrificio, passione per il mondo e filosofia d’occasione, per Graphe.it, si cimenta come cercatore di una “società nuova”, con il ruolo di educatore politico e stimolatore per una partecipazione attiva dell’individuo di oggi. È alla ricerca di una dimensione nuova del mondo, specie dopo l’ingresso della bomba atomica nello scenario bellico e delle reazioni a catena da essa determinate, al punto da mettere a rischio la stessa sopravvivenza umana a livello planetario. In questa pubblicazione egli fa leva sul gotha della Filosofia contemporanea e pone la sua attenzione sul pensiero portante di Karl Jaspers, Hannah Arendt e Günther Anders, accomunati da un vissuto storico, le guerre del XX secolo, che provocarono il crollo del pensiero e degli ideali del secolo precedente, la catastrofe dello sterminio nazista degli ebrei e le conseguenze che la bomba atomica ebbe sull’umanità.

Per il prevalere dei regimi totalitari e antisemitici i tre ebbero tante persecuzioni; Jaspers, amico di Martin Heidegger e Arendt, allieva di entrambi, ebrea come Anders, che seguì alcuni studi di Heidegger all’Università di Marburgo, per poi laurearsi sotto la guida di Husserl, fanno delle riflessioni filosofiche sulla violenza nel mondo e sui rischi che attraversa l’uomo nella sua pluralità. Mario Martini nella sua Introduzione afferma che le riflessioni dei tre filosofi riguardano l’ “uomo del nostro tempo” e il Moscati codifica gli elementi del pensiero dei tre studiosi nel titolo: pensieri che nascono e si sviluppano quale espressione di esperienze vissute in una comune realtà. Con questo saggio cerca di trovare la chiave interpretativa del concetto di violenza sviluppato dai tre filosofi per scongiurare il ripetersi di una nuova Hiroshima o una nuova Auschwitz.
I tre studiosi, vicini culturalmente, vogliono raggiungere l’obbiettivo di trasmettere una coscienza critica sulla violenza e impedire, così, il generarsi di una violenza nuova e più distruttiva. Jaspers vede in fondo al tunnel la luce della fede filosofica, Hanna Arendt la luce della fede e della speranza e Anders quella della ragione. Moscati coglie nella tesi della Arendt la via migliore da seguire, proprio nel modo in cui ella chiarisce che la violenza, prima di essere combattuta, va compresa, per cogliere il vero senso del problema, infatti vede la storia come un processo cronologico continuo, interrotto solo da una forma di violenza, come una guerra o una rivoluzione e avverte che essa presenta, oggi, una insidia reale che si sviluppa maggiormente con l’assenza della politica. La scomparsa di questo spazio esclusivo e privilegiato, necessario alla realizzazione singola e plurale dell’essere, potrebbe avvicinarci verso una catastrofe planetaria senza ritorno. La politica, come sfera pubblica, è spazio vitale e naturale dell’agire dell’uomo libero, ove una coscienza critica permette ai filosofi di interpretare il mondo in termini politici, per evitare che le violenze del XX secolo riaffiorino con una nuova manipolazione della libertà e della democrazia e infine con la revoca e la rimozione della politica medesima.

Moscati, per quanto concerne le cause della rimozione politica e dell’affermazione della violenza, richiama l’angosciosa analisi di Jaspers, che parla, da tedesco ai tedeschi, delle loro colpe, suddividendole in quattro tipologie: criminale o giuridica, politica, morale e metafisica. La colpa criminale è prevista dalle leggi vigenti riguarda i singoli cittadini e la competenza ricade sui tribunali. La colpa politica riguarda le responsabilità degli uomini di Stato, ma si riversa su ogni cittadino dal momento che esso partecipa alla vita politica di una nazione, quella morale invece, riguarda ciascun individuo alle prese con la propria coscienza e, pur non essendo valutabile sul piano giuridico, mette l’uomo di fronte alle proprie responsabilità, specie quando gli vengono impartiti ordini gerarchici per commettere crimini o delitti. La colpa metafisica è l’infrazione del principio di solidarietà tra gli uomini, si palesa ogni qualvolta, avendo notizie di violenze inflitte ad un nostro simile, non facciamo nulla per impedirle. Queste colpe non hanno valore categorico, l’una non esclude l’altra, ma per ciò che è stato il regime nazista, afferma Jaspers, si giunge alla conclusione di sentirsi colpevoli solo per essere ancora vivi, proprio per il fatto che in quel periodo storico i tedeschi non erano considerati tali, ma nazisti, per cui l’elemento tragico del nazismo non è stata tanto la violenza della sua crudeltà e della sua ferocia, quanto la riduzione dell’uomo allo stato di cosa. Questa è la colpa metafisica secondo Jaspers, da cui non è possibile riscattarsi e, come sottolinea il Moscati attraverso la prefazione di Umberto Galimberti al testo jasperiano, tale colpa non sta nel passato, ma nel presente e nel futuro. Essa affiora ogni qual volta l’uomo non è trattato come un “fine” ma come un “mezzo”, così come inaugurato dal nazismo che ha tramutato il totalitarismo politico in totalitarismo tecnico, con il rischio che questo schema potenzialmente possa ripresentarsi ogni qual volta l’uomo venga ridotto a “cosa”, come nella sperimentazione nucleare che propone lo scenario del totalitarismo tecnico come succedaneo del totalitarismo politico.

È Günther Anders che ci definisce figli del totalitarismo tecnico e non di quello politico, figli di Eichmann e non di Hitler, che coglie le mostruosità dell’individuo compiute all’interno di un apparato e l’impossibilità di percepire le conseguenze ultime delle sue azioni orrende.

Si costruì la macchina della morte, si organizzò lo sterminio a livello industriale, furono annientati oltre sei milioni di ebrei e zingari da parte di persone che accettarono questo lavoro come un qualsiasi altro lavoro, inaugurando il principio, oggi diventato mentalità aziendale, secondo il quale si tratta di collaborazione e di ubbidienza agli ordini. Il crimine assoluto inizia così la dove viene meno la responsabilità individuale, dove l’individuo si riduce a semplice esecutore di un compito e, più che non capire il ruolo, senza chiedersi delle conseguenze a cui porta la sua azione, fino al punto di falsificare una realtà in cui c’è dentro come elemento eterogeneo e vergognosamente distinto perché diverso, non identico alla realtà umana che rimuove.

Anders si interroga sull’olocausto, sull’etica di quel sacrificio umano e sull’ineluttabile condanna che si riversa nei discendenti. Arendt, partendo dalla sua appartenenza al popolo ebraico, parla di responsabilità, di colpe e di punibilità non sufficienti, mentre Jaspers è alla ricerca coraggiosa di uno spazio e del senso profondo dell’essere tedeschi dopo la Shoah.

L’etos, riferimento irrinunciabile, di fronte alla violenza stabilisce le condizioni di una vita degna di essere vissuta e per questo Jaspers si affida alla pratica non violenta gandhiana.

«Il sacrificio, come prova che l’uomo dà a se stesso di se stesso, per mostrare di essere superiore alla sua stessa vita, per cui la espone e osa tutto, senza curare per che cosa e quando, appare come una rivolta, non degna di considerazione, contro la trascendenza che esige la vita in questo mondo. Se però come significato del sacrificio diventa normativo il “perché”, questo allora è sempre insufficiente. L’idea del sacrificio, come pensiero generale, può richiamare l’attenzione solo sul non-generale, sul singolo nella fondazione trascendente di una realtà che non è trasparente per il sapere. Ma il sacrificio è una ragione ineliminabile della umanità». Ribadisce poco dopo Jaspers: «Solo questo è certo: senza sacrificio non c’è umanità»

Arendt concorda con Jaspers là dove scinde il ruolo del potere da quello del dominio, poiché il primo ha bisogno di dinamiche di condivisione e il secondo dell’autorità della menzogna e della costrizione tendente a nascondere la sopraffazione del dominio. Anders mette in secondo piano il problema della violenza e della libertà poiché individua nell’era tecnico-scientifica il pericolo della sopravvivenza dell’uomo e della scomparsa del pianeta. Moscati tenta un recupero di Anders, ammirevole, vorrebbe toglierlo dall’isolamento in cui l’ha collocato l’establishment della filosofia, riconoscendo al suo pensiero un ruolo profetico verso quell’uomo sempre più evanescente nel nostro pianeta, in quest’era della tecnica che crea macchine produttrici di oggetti diventati i veri protagonisti della storia dove l’oggetto, in modo sempre più imperativo, assume il ruolo di soggetto e il soggetto rischia di essere relegato semplicemente a “cosa”.
L’evolversi della strategia bellica ha creato “analfabeti emotivi”, dal momento in cui sono stati costruiti aerei da bombardamento senza piloti e senza soldati, dove l’uomo soldato scompare dallo scenario bellico venendo relegato al ruolo di esecutore materiale a distanza dalle sue vittime, senza avere la possibilità di immaginare il tipo di distruzione da egli causato, così come avvenuto con l’uso della bomba atomica sganciata su Hiroshima.

Anders vede quindi l’umanità di oggi diventare un mostro senza rendersene conto e vuole dimostrare l’alienazione quotidiana della vita dell’uomo, che si eleva a normalità. Ecco da cosa nasce lo slancio salvifico del mondo di Anders, da molti ritenuto esagerato specie dove egli, in modo drammatico, tende a scuotere l’uomo di oggi dalla sottomissione alla tecnica e dalla violenza da esso subita.

Anders, ebreo, fa prevalere il suo pensiero sullo sterminio degli Ebrei? Egli lancia un messaggio all’umanità richiamando quell’evento storico come un’eventualità sempre presente in quanto oggi, con l’evoluzione tecnica, con la globalizzazione, col ridimensionarsi della visione politica del mondo, il pericolo dell’annientamento dell’uomo non si ripresenta solo per la razza ebrea ma per l’intera umanità. La disperazione di Anders si coglie nella constatazione che il mondo è abitato da sopravvissuti, essi stessi autori della tecnica odierna ai cui piedi si sono prostrati, distanziandosi, così, dal suo maestro Heidegger che vede questo approccio teoretico legato ad un processo stabile metafisico in cui la tecnica passa come l’affermazione del pensiero nel mondo. Il suo pensiero, quindi, è ben lontano da quello di Heidegger, in quanto egli mira a bloccare la minaccia dell’atomica non tanto in termini teoretici e filosofici, ma in termini pratici, riconoscendo alla filosofia non solo il ruolo di riflettere sull’uomo e sull’esistenza umana, ma anche quello di stimolare il cambiamento attraverso la conoscenza.

La filosofia pensa il non filosofico, la realtà. Chi è il filosofo? Colui che riflette sui pensieri filosofici oppure sulla realtà stessa?
Scrive Wiedmann, il vero filosofo è un “pensatore d’urto”, che modifica in profondità il modo di vivere e di pensare dei suoi contemporanei e dei posteri, quindi, proprio per questo, Anders è da ritenere un filosofo autentico e con la sua “filosofia d’occasione”, un antisistemico. Sia Jaspers che Arendt rimangono all’interno della tragedia del mondo per giungere ad un ragionato superamento di essa, Anders invece cerca di scoprire il meccanismo che ha determinato lo stritolamento dell’uomo da parte di una tecnica che ha assunto il ruolo di dominatrice del mondo. Egli perviene in un secondo tempo alla giustificazione della violenza come autodifesa, una violenza di tipo terroristico, capace di fermare coloro che vogliono distruggere noi, il mondo e se stessi.

Questo ragionamento, sostiene il Moscati, ci tallona, ci incalza, non si ferma, in forma disperata vuole dimostrare come all’estremismo del pericolo sia indispensabile la coerenza dell’utilizzo dei mezzi, cosa che egli non condivide, perché ci perderebbe il filosofare e la capacità di penetrazione e di vivacità critico-filosofica, ma ritiene necessarie le tematiche andersiane per la validità di alcune argomentazioni. Anche Severino si trova molto vicino alla prima tesi andersiana, riconoscendo l’angoscia che produce la civiltà della tecnica, ma Anders ritiene urgente combattere la politica atomica in quanto essa rende possibile la fine dell’umanità. Arendt riconosce che la violenza deve determinare in noi un senso di unità, specialmente fra i giovani, sotto il segno della rivolta o della rabbia, quali espressioni di emozioni umane. I tre autori manifestano una difesa incondizionata dell’uomo: Jaspers a salvaguardia della dignità, Arendt dei diritti e Anders a protezione della sopravvivenza umana. Per vie diverse vivono una passione per il mondo, scavando nel passato e vivendo il presente nel tentativo di salvare il futuro dell’uomo prima che sia troppo tardi. Gli effetti della tecnica, che potrebbero annullare il nostro futuro, vengono scandagliati nel periodo della guerra fredda, sotto la spada di Damocle, che si chiamava e si chiama ancora oggi bomba atomica. Anche ad interpretare il pensiero di Anders sotto forma di tecno-fobia, sollecitata dal contesto storico, appare fuori luogo non considerare la sua analisi se si pensa che la gestione delle nuove tecniche comincia a “sfuggire di mano”, a partire dalla tecnologia digitale. Essa non si limita a potenziare le capacità elaborative dell’uomo o semplicemente abbattere i confini geografici e diffondere a costo zero il patrimonio culturale, nasconde lo straripamento dell’informazione e un nuovo sistema di vivere i rapporti in modo virtuale, facendo riaffiorare il pensiero di Anders sulla produzione tecnica e l’inadeguatezza dell’uomo.

Si è generato quello che egli chiama “dislivello prometeico”? Infine, l’ampiezza delle sue riflessioni, specie quelle fatte nel 1956 sulla televisione, riflettono sul vero potere manipolatorio del mezzo:

«per foggiare il tipo oggi richiesto di uomo di massa non è più necessario l’effettivo ammassamento in forma di riunione di massa». I nuovi dittatori non hanno più bisogno dei grandi raduni oceanici poiché la televisione li ha già “decentrati” in casa.

Moscati richiama ancora Arendt per sottolineare che la violenza modifica la realtà, in direzione di un mondo più violento. I tre filosofi convergono sul pericolo nucleare, ma è Anders che dà l’aut aut sull’imminenza del pericolo ricadente sull’umanità. Moscati conclude con la considerazione che il recupero degli aspetti, nella sua opera, meglio adattati al pensiero del momento, non hanno nulla a che fare con l’attualità odierna… aggiungo, anche quando un vice presidente del senato italiano va in giro per il paese sfoderando brandelli di razzismo? O ancora peggio, quando l’intelligenza artificiale, superando l’immaginazione dell’uomo, prepara la III guerra mondiale, pianificando la riduzione della popolazione mondiale da otto miliardi a uno e, se tutto dovesse andare per il meglio, questi nuovi Adamo ed Eva, che la guidano, si trasferirebbero in una nuova residenza planetaria e da lì guiderebbero la residua popolazione del pianeta terra con internet? Comunque, Giuseppe Moscati aggiornando e aggiornandoci del pensiero di questi tre grandi della Filosofia contemporanea, ci consegna un’opera degna di ogni attenzione da parte dei cittadini del mondo.

 

Giuseppe Moscati
Etos del sacrificio, passione per il mondo e filosofia d’occasione
Graphe.it, 2010
Pagine 96
Prezzo di copertina € 15,00

Franco Santangelo

Critico e Storico