Intervista a Natale Fioretto, dal Vesuvio alla steppa

L’amore per le lingue straniere qualche volta comincia in tenera età, quando ci sono quegli incontri avvenuti per caso, che però possono caratterizzare la propria vita, fino a diventarne il cardine per la carriera professionale. Non solo ciò abbiamo appreso dal prof. Natale Fioretto, docente di Lingua italiana e di traduzione dal russo presso l’università per stranieri di Perugia, autore tra l’altro del nuovo libro Dal Vesuvio alla steppa, oltre che curatore anche della traduzione in lingua italiana di Racconti popolari giapponesi di Adriana Lisboą. Nell’occasione ci ha illuminato su quanto due lingue straniere, come il russo e l’italiano, possano intersecarsi o essere contigue, e quanto le due popolazioni si differenziano nell’amore per il palcoscenico che, però, unisce nei sentimenti che ne scaturiscono.

Il suo amore per Eduardo come e in quale occasione nasce?
Ho origini partenopee e il contatto con l’opera di Eduardo è avvenuto in modo del tutto naturale. L’amore è nato dopo con la meditazione, la ruminatio del messaggio eduardiano così lontano dal folclore. In ogni caso il primissimo contatto è con Filumena Marturano opera che, già da piccolissimo, sapevo recitare a memoria. Almeno in parte.

E quello per la lingua russa?
Da piccolo, e sto parlando di quando avevo sette anni, mi regalarono dei libri per le feste di Natale, fra questi uno di Gogol’ Taras Bul’ba. Fu una fulminazione o per meglio dire, mi parve, e mi pare ancora, di riconoscere in quei luoghi lontani un “luogo dell’anima”. Quando, molti anni dopo, mi trovai a dover scegliere una lingua in cui specializzarmi quell’imprinting mi spinse a scegliere il russo e non il troppo ovvio inglese. Non me ne sono mai pentito.

Con il suo testo ha evidenziato quanto una battuta scritta in una lingua può cambiare anche di significato nell’altra: i russi quindi come concepiscono il nostro Eduardo?
La traduzione che ho analizzato nasce in epoca sovietica e l’attenzione principale viene concentrata sulle profonde valenze popolari dell’opera di Eduardo. Tuttavia i russi hanno sempre amato molto il teatro eduardiano per quella sua risonanza universale oltre che squisitamente italiana e napoletana, in particolare. Devo riconoscere che talvolta lo stereotipo di napoletanità vince sui temi più drammatici, ma la critica sovietica, allora, russa oggi è sempre stata molto attenta all’opera teatrale di Eduardo e il pubblico lo ha amato senza limiti.

Dal punto di vista sociologico in cosa si distinguono le due lingue?
Geneticamente, il russo e l’italiano sono meno distanti di quanto si pensi. La radice indoeuropea del russo è evidentissima. Sociologicamente le distanze sono notevoli perché le due società sono lontane e differenti, ma parliamo sempre di culture europee che hanno avuto molti contatti nel corso dei secoli. Il russo è la lingua delle sfumature, degli aliti di vento, precisa, ma plastica e molto musicale e, come sta accadendo per l’italiano, in rapido mutamento.

Qual è il messaggio principale che ci ha lasciato il teatro eduardiano dal punto di vista filosofico-esistenziale?
Si potrebbe dire che il tema e il lascito di Eduardo è l’ostinata fiducia nelle capacità dell’essere umano. Questo, però, non significa che Eduardo nutrisse del facile ottimismo, al contrario. La conoscenza dell’animo umano lo porta ad essere poco incline alla vacua speranza. L’umanità che Eduardo porta sul palco è sofferente, capace di grandi slanci, ma molto più spesso pavida e gretta. I suoi personaggi difficilmente si salvano dall’urto con una realtà poderosa e superficiale. In questa prospettiva sono le donne a detenere lo scettro della grandezza d’animo e del coraggio. Gli uomini, pensiamo, ad esempio, a Luca Cupiello, sono dei vinti che, dovendosi confrontare con l’enormità della realtà, ne restano sconfitti e devastati. L’essere umano che anima il teatro eduardiano non è né buono, né cattivo, è capace di grandi azioni, ma molto più spesso si accontenta di sopravvivere confinandosi in una realtà senza eroismo. La famosa battuta di chiusura nella stesura del 1945 di Napoli milionaria e che viene ripetuta, sovente a sproposito, «adda’ passa’ ‘a nuttata», aperta allo spirito ottimistico e possibilista del secondo dopoguerra, nella riscrittura del 1977 venne stralciata perché non più consona alla visione, chiaramente pessimistica, edoardiana dell’esistenza e della società italiana.

Il palcoscenico russo, secondo lei, in cosa supera quello italiano, e viceversa?
Non parlerei di primati, ma di contiguità. Il teatro italiano ha una storia molto antica che ha fatto ampiamente scuola in tutta Europa. Il teatro russo, storicamente, nasce tardi, ma recupera bene. Pensiamo a Cechov, tanto per citare un solo nome. Un aspetto interessante è che in Unione Sovietica il teatro ha avuto masse di spettatori sconosciute all’occidente. Il regime sovietico, infatti, aveva puntato molto sulla propaganda di tipo letterario con risultati molto interessanti.

Invece le due lingue (i due stati e le sue popolazioni) in cosa si assomigliano?
Come dicevo prima, le due lingue condividono una stessa origine indoeuropea. Il russo, per precisione, appartiene al gruppo orientale delle lingue slave insieme a ucraino e bielorusso. Come tutte le lingue di cultura ortodossa usa l’alfabeto cirillico, un alfabeto, cioè, formatosi su di un modello greco. Fra l’Italia e la Russia geograficamente ci sono pochissime, se non nulle somiglianze. A noi italiani, in particolare, sono del tutto estranee le vastità delle pianure e delle steppe, dei fiumi, enormi e ricchissimi di acqua. Confesso di essere rimasto sconcertato dall’enormità di quel paese, le nostre scale di riferimento sono del tutto inadeguate. Al contrario i russi cercano di creare con chi si mostra interessato rapporti intensi. Sono estremamente socievoli e cordiali. Forse il moscovita è frettoloso e distratto, ma è pur sempre costretto a districare in una metropoli di oltre cinque milioni di abitanti, trafficatissima e non certo un’oasi di pace.

 

 

Maria Ausilia Gulino

Teacher – Journalist

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