Giuseppe Galato affronta il tema del suicidio

 

Parlare della morte inquieta, altre volte affascina, altre ancora terrorizza. Tralasciando quella naturale abbiamo voluto approfondire quella autoindotta: il suicidio. Avevamo già affrontato il tema con il saggio Breve guida al suicidio, mentre adesso ne parliamo proprio con l’autore, Giuseppe Galato, che ha voluto esporre il suo pensiero diciamo pure in maniera informale.

Come mai ha scelto il tema del suicidio?
Il mistero della morte; l’idea di poter scegliere tu stesso quando porre fine alla tua vita, come un film che stoppi prima della scena finale a tuo piacimento; il brutto; la relativa depressione che nasce dal brutto e dal senso di impotenza verso di esso: potrebbero essere tutti questi (e magari altri) i motivi che mi hanno spinto a parlare di suicidio. In generale le idee base del libro sono nate una sera nel locale di un mio amico: pensavamo a che tipo di eventi potessimo organizzare e, guardandomi attorno, vedevo un sacco di gente depressa; quindi pensai ai “Suicide party” di cui parlo nel libro. Di lì poi scrissi di personaggi vari, spesso catapultati in contesti legati al mondo del lavoro: mi piaceva l’idea di poter muovere una critica alla nostra società usando un tema forte e “scomodo”, per certi versi provocatorio, come quello del suicidio. E così ecco a voi Breve guida al suicidio.

Ironia e suicidio: cosa vuole che il lettore capti innanzitutto dal suo libro?
Messaggio#1: Che tutto sommato prima o poi (si spera sempre più “poi” che “prima”) dobbiamo comunque morire e che quindi, rimandiamolo quanto più possibile st’incontro con l’ignoto. Messaggio#2: Il messaggio reale del libro, al di là del “suicidio”, che è solo pretesto, è una (spero) articolata (per quanto naturalmente limitata per via della forma di “finto saggio” ironico e cinico che ho dato al tutto) analisi della società e dell’essere umano, “vittima” di essa: attenzione, ho virgolettato “vittima” proprio per sottintendere che non siamo vittime nel senso che c’è qualche entità superiore che ci manovra; c’è di base anche quello, ma ciò che voglio dire è che comunque tutto ciò che l’essere umano fa, dal barbone al più grande capitalista, senza distinzioni di “classe” (come ne ’A livella di Totò, ma senza regno ultraterreno), è mosso da impulsi esterni a noi, che è sempre bene conoscere e analizzare quanto più possibile per capire (nei limiti, perché siamo naturalmente esseri limitati) chi siamo e perché ci comportiamo in un determinato modo. Fondamentalmente non credo nel concetto di “libero arbitrio”, in senso stretto, ma penso che più una persona conosce, più analizza, e più si possa avvicinare, per quanto può, ad avere un pensiero inedito o quanto meno ponderato senza essere “vittima” degli impulsi esterni. Il dubbio (dubitare e, successivamente, formulare una risposta agli interrogativi che ne nascono, è la più grande forma di intelligenza): il dubbio che uccide tutto ciò in cui crediamo, in nostri dogmi personali, uccide “Dio”, che siamo noi stessi, le nostre credenze, e porta alla nascita di quello che Nietzsche chiamò “Superuomo”. Messaggio#3: Legato al messaggio#2, più generico, il terzo messaggio sta nel cercare di ritrarre le brutture dell’essere umano attuale e di questo sistema capitalistico assurdo che ci rende schiavi. Anche qui lo “schiavo” non è solo chi è schiavo materialmente (dagli sfruttati del terzo mondo a quelli con contratti ridicoli nel mondo “civilizzato”) ma anche chi lo è psicologicamente, quindi pressoché tutti, anche il più grande capitalista di merda del mondo, che per avere sempre maggiore potere economico (a che pro?) per ergersi al di sopra degli altri (ancora: a che pro?) sfrutta, inquina, distrugge il pianeta: schizofrenia. Capitalisti che hanno così tanti soldi da non riuscire a consumarli in 10mila vite: che senso ha? Tutto ciò accade non perché il fine è raggiungere un guadagno da investire in cose che ci piacciono ma il tutto si traduce in qualcosa di molto più sottile, e cioè che il potere economico reca al soggetto un più elevato status sociale a discapito degli altri; un più elevato status sociale che ci fa ergere al di sopra degli altri e ci fa sentire potenti. La cosa triste è che anche il poveraccio applica le stesse logiche del capitalista, nel suo piccolo, e si riempie di status symbol per simulare una scalata sociale che non vedrà mai realizzarsi. Quando compriamo un cellulare che non ci serve necessariamente se non a donarci un’aura nuova (del tutto fittizia) agli occhi degli altri (“Guarda quello che macchinone ha!!!”) e per ergerci al di sopra degli altri cercando pateticamente di innalzare il nostro status socio-economico sappiate che stiamo schiavizzando mezzo mondo, da chi scava le componenti minerali in Africa (cercare su internet la parola “coltan”), schiavizzato materialmente dalle mafie locali o da colpi di stato appoggiati dalle nostre aziende per risparmiare sulla forza-lavoro, al bambino cinese, che lo assembla ad orari di lavoro assurdi, fino a noi stessi, schiavi dello stipendio, visto e considerato che spendiamo frotte di soldi per aggeggini (si: pure il macchinone non è nient’altro che un aggeggino) che non servono realmente se non a esibirli, ancora, come status symbol, per mostrare a tutti il più alto grado sociale (ancora: del tutto fittizio), quando avremmo potuto investire quei soldi in altro in modo da non doverci vendere al migliore offerente (che comunque pagherà una miseria) per arrivare a fine mese: pensiamoci.

P.S.: Ci tengo a dire che mi interessa poco degli esseri umani e mi dispiace più che altro per come abbiamo ridotto il pianeta, visto e considerato che ne deriva un inquinamento globalizzato (come ci piace questa parola) dalla (ultra)produzione di tutte le inutilità umane (dal cellulare ai campi di grano o soia e via dicendo provenienti da colture intensive: come se poi servisse tutto questo surplus, ortaggi e via dicendo lasciati a marcire nei container per far salire il prezzo). E, sottolineiamolo, anche l’inquinamento frutta, visto che non credo proprio che i rifiuti provenienti dalle grandi industrie vengano smaltiti legalmente (altrimenti non si spiegherebbe i disastri provocati dalle ecomafie in tutto il mondo, anche sotto i vostri piedi, nei vostri mari, qui in Italia). Cito Giobbe Covatta e chiudo: «La produzione della monnezza è più redditizia dello smaltimento della monnezza. E di questo non è responsabile la camorra ma il mercato, ma la differenza è irrilevante». Consiglio la visione di questo video, da cui è tratto questo estratto: http://www.youtube.com/watch?v=ggXxSL5AK5E

Il Capitalismo, secondo quanto leggiamo, è il promotore principale del suicidio, secondo lei è solo una scusa? Come possiamo uscirne fuori?
All’interno del libro è forte la critica al capitalismo e/o sono comunque preponderanti le tematiche legate ad esso, ma non vorrei si percepisse dalla lettura che è, a mio avviso, il capitalismo tout court ad essere il “promotore” del suicidio: parlo (e straparlo) di capitalismo perché è la massima rappresentazione della società in cui viviamo attualmente, e dato che nel libro parlo (o almeno cerco di parlare) di società mi sembra logico tutto il discorso confluisca su capitalismo, libero mercato e, soprattutto, consumismo, figlio di questo sistema economico. Del resto noi siamo, storicamente, ciò che è la nostra società in un determinato momento (“Materialismo storico” e via dicendo) e quindi, per capire chi siamo, dobbiamo capire cos’è la nostra società e quali sono gli impulsi che essa reca. Non voglio dire che viviamo in tempi bui, perché significherebbe negare le brutture del passato guardando ad esso con fare nostalgico e romantico. In realtà penso che l’uomo sia cambiato molto poco, di base, da quando è nato il primo sapiens: se guardiamo alla nostra storia i grandi eventi sono tutti legati a guerra e distruzione. L’unica differenza fra passato e presente è che ora, con l’avvento delle scoperte tecnologiche e il via a un capitalismo che ha alla base un libero mercato incontrollato e schizofrenico, stiamo distruggendo un mondo intero con una velocità assurda. Ed il processo è pressoché ormai irreversibile: altro che entropia. Direi che, se vogliamo leggerla così, non il capitalismo ma lo schifo che fa l’essere umano, si, è “promotore” del suicidio. Peccato non si suicidino mai gli stronzi che avallano questo sistema. Magari in massa.

Ci si suicida con consapevolezza? Perché?
Il più alto tasso di suicidi al mondo lo riscontriamo nei paesi del nord Europa, paesi di “libertà” (non nel senso Decrescenziano del termine) che permettono, più o meno, agli uomini di essere liberi da troppe costrizioni sociali: non vorrei azzardare analisi sociologiche, ma in questi casi il suicidio mi pare essere quasi una scelta rilassata, libera dalla paura di un giudizio (umano o divino che sia) e via dicendo. «E ma se sono più “liberi” di noi perché si suicidano?», mi si potrebbe chiedere: eh, bella domanda. Forse proprio perché hanno una minore paura della morte. Credo che avere un pensiero suicida rilassato sia importante: implica non avere paura della morte, che è la cosa che, giustamente, più di tutte spaventa qualsiasi essere vivente; è quasi come a voler combattere con essa dicendole “scelgo io quando chiamarti” (per quanto lo si possa, facendo gli scongiuri); ciò dovrebbe far vivere la vita in maniera meno spaventata e più rilassata, dalla paura ancestrale della morte e giù di lì proiettando questo nuovo coraggio riacquistato a tutti gli altri aspetti della vita. Alla fine i mezzi di controllo delle masse si muovono tutti grazie alla paura: paura del diverso, paura del non essere all’altezza, paura del sesso, paura, paura, paura. Se non hai paura della morte, forse, anche tutte le altre paure svaniscono. Tornando ai perché del suicidio, credo che la maggior parte delle persone che lo fa lo fa perché arriva a un punto in cui il brutto della vita gli diventa insopportabile, ognuno per motivazioni personali ma riconducibili, immagino, comunque tutte ad un grado di sensibilità emotiva più elevato del soggetto: il malessere nasce dalla sensibilità. Vivere in questo mondo di costrizioni psicologiche e fisiche non è proprio bellissimo, diciamocelo. L’unica cosa che non capisco sono i tanti suicidi legati al mondo del lavoro di cui tanto si parla negli ultimi tempi: sono suicidi tristi, non sono per niente “romantici” (come può esserlo una persona che si suicida perché non riesce più a sopportare il brutto) o funzionali (tipo i suicidi per protesta: anche se non credo servano poi a molto); e sono tristi perché sono mossi dalla frustrazione non del non poter sopportare il brutto ma dal non poter vivere come società e consumismo ci insegnano, e cioè consumando; non sarebbe più logico vivere da barbone senza bisogno di avere la casa e il mutuo e il cellulare? Vivere male (secondo gli schemi sociali) ma vivere: che di cose belle, in questo mare di schifo, ce ne sono. Dovremmo tornare alla terra: decrescita. Ma tanto le tasse le inizierebbero a fa’ paga’ pure se te ne vai a vivere sotto un albero.

Che cosa si aspetta l’uomo dal suicidio? Cosa dovrebbe avvenire dopo, secondo lei?
All’interno del libro c’è un intero capitolo dedicato a cosa avviene dopo il suicidio; naturalmente raccontato sempre in chiave ironica. In generale, per noi cattolici c’è supplizio, a quanto mi dicono. Io personalmente non credo alla vita dopo la morte ma, se proprio dovesse aver ragione qualcuna delle tante (troppe, e che già una sarebbe troppa comunque) religioni, spero che questa non sia il buddhismo con la reincarnazione: sarebbe ‘na faticaccia rifare tutto daccapo!!!

 

 

Maria Ausilia Gulino

Teacher – Journalist