Lo storico Luigi Ambrosi ricostruisce le proteste più drammatiche della storia dell’Italia repubblicana

Cosa unisce la rivolta di Reggio Calabria del 1970 e l’eccidio delle Fonderie Riunite a Modena nel 1950? Sembrano due mondi distinti e lontanissimi, eppure si tratta delle due più acute crisi dell’ordine pubblico nella storia dell’Italia repubblicana. Lo scontro tra manifestanti e lo Stato, tra la protesta e la polizia sono al centro dell’attività dello storico Luigi Ambrosi, ricercatore precario dal punto di vista lavorativo – come tanti oggi – eppure rigoroso e accurato nel lavoro. Lo abbiamo intervistato a proposito dei suoi due libri e dei progetti futuri.

Luigi Ambrosi è dottore di ricerca presso “La Sapienza” di Roma e collabora all’attività didattica con l’Università della Calabria. Il suo primo libro, La rivolta di Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970, pubblicato per Rubbettino nel 2009, ha vinto numerosi premi (Palmi, Rhegium Julii, Minturnae, Ettore Gallo). Il suo secondo libro si intitola Prefetti in terra rossa. Conflittualità e ordine pubblico a Modena nel periodo del centrismo (1947-1953). Fa parte della redazione di «Daedalus. Quaderni di Storia e di Scienze sociali» e del Comitato scientifico dell’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea.

Il suo primo libro racconta, mediante un rigoroso metodo scientifico, la rivolta di Reggio del 1970: com’è nata l’idea e qual è l’originalità che agli altri storici è sfuggita?
La curiosità intellettuale per le vicende storiche più contraddittorie e più incandescenti dal punto di vista del dibattito politico e pubblico è stata la molla iniziale. Sulla rivolta di Reggio Calabria del 1970 – come su numerosi altri eventi “assurdi” e “caldi” come quella – si sono addensati nel corso del tempo stereotipi e letture di immediata presa, “molteplici e facili suggestioni”, come dice l’incipit del libro. La fiducia in un metodo scientifico di ricostruzione storica, razionale e critico, ha alimentato quella curiosità iniziale e così ho cominciato a girare per archivi, a cercare documenti. Ho raccolto e letto circa seimila fogli: relazioni del Ministero dell’Interno e della prefettura di Reggio (e di altre città), rapporti dei carabinieri e centinaia di volantini e manifesti, carte dei principali partiti (Dc, Pci) e testimonianze orali. Ho fatto semplicemente quello che ogni storico fa, su un evento del Cinquecento come del Novecento: una ricostruzione plausibile dei fatti, senza preconcetti e soprattutto senza cercare di svelare misteri, legati in questo caso alla strategia della tensione o al rapporto tra fascisti e criminalità organizzata. Perché cercare di svelare i misteri, in assenza di documenti, può diventare fuorviante e romanzesco, ma soprattutto inutile, poiché a Reggio si mossero migliaia e migliaia di persone, che non si possono dirigere se non proponendogli un obiettivo che li accomuni: cioè il capoluogo e non certo l’eversione dell’ordine democratico! Si tratta di un risultato della mia analisi ma sarebbe bastato leggere gli scienziati sociali dell’azione collettiva. Per cui, paradossalmente, un’impostazione per me scontata è diventata originale rispetto a giornalisti e saggisti, osservatori e protagonisti, ma anche storici, che non hanno mai ricostruito la vicenda globalmente ma ne hanno sempre solo citato gli aspetti più eclatanti.

Solo una questione di metodo?
Oltre all’impostazione credo che uno dei risultati più originali della ricerca sia la dimostrazione che non si sia trattato di una rivolta antistatalista, per molteplici motivi. Prima di tutto una ragione di contesto: l’estraneità allo Stato italiano da parte dei calabresi è negli anni Settanta praticamente un mito, visto che la maggior parte dei funzionari, impiegati e uomini delle forze dell’ordine erano calabresi e meridionali; antistatalismo è una categoria che va bene per la Calabria e per il Sud certamente al momento dell’unificazione e probabilmente per molti decenni in seguito, quando si mostra l’insofferenza per la leva obbligatoria, per il fisco, per la “piemontesizzazione”… ma negli anni Settanta il volto – anche feroce – dello Stato che si presenta ai reggini è calabrese, meridionale… uno di quei carabinieri chiamati a sedare la rivolta era il mio calabresissimo padre! Un’altra fortissima ragione è di merito, nel merito della disputa per il capoluogo: i reggini chiesero ripetutamente e costantemente che l’arbitro della contesa con Catanzaro sulla designazione a capoluogo fosse il Parlamento, cioè la massima espressione dello Stato democratico… e lo chiedevano anche i fascisti, anche Ciccio Franco e gli altri presunti eversori. Inoltre, i reggini chiedevano un maggiore intervento dello Stato nella distribuzione delle risorse e delle opportunità di crescita (università, industrie ecc.), non un suo allontanamento. Anche il Fronte nazionale del principe Borghese mostrò pubblicamente il suo volto “statalista”, di rispetto verso le forze dell’ordine, mentre forse tramava per un golpe mai chiarito e comunque il loro “antistatalismo eversivo” non aveva nulla in comune con una supposta disaffezione atavica dei calabresi e dei meridionali verso lo Stato. La sfiducia nello Stato e nel sistema dei partiti, sulla loro efficienza nel risolvere i problemi della popolazione, è un’altra cosa…

Quali furono gli aspetti salienti di questa rivolta di cui ancora oggi si piangono le conseguenze?
Uno degli aspetti salienti fu la ridefinizione del rapporto tra politica e territorio, dovuta alla nascita delle Regioni. Il sistema di mediazione dei conflitti e degli interessi, sostanzialmente democristiano o comunque governativo, cambiava sostanzialmente rispetto ai primi 25 anni di democrazia dei partiti. Il luogo della mediazione – o della spartizione – non sarebbe stata più Roma ma diventava, almeno in prospettiva, il territorio regionale, dove si andavano misurando la potenza clientelare di gruppi e singoli personaggi politici. Cosicché il trionfante regionalismo si trovava a fare i conti con un localismo delle classi dirigenti che creava tensioni, in forma eclatante in Calabria o in Abruzzo, ma anche negli altri territori, dove partiti più coesi ideologicamente (penso all’Emilia e altre zone “rosse” o “bianche”, dove una subcultura politica omogenea diffusa minimizzava i conflitti e le istanze territoriali, che sono invece emersi dopo la caduta della prima Repubblica, cioè con la Lega Nord ma anche mediante la proliferazione delle province e di altri organismi di rappresentanza locale) e un’economia indipendente dal settore pubblico rendevano meno incidenti le competizioni tra territori per accaparrarsi posti di lavoro e risorse statali.

Un altro aspetto rilevante è la sfiducia e la critica nel sistema dei partiti, nella cosiddetta partitocrazia, che non era un dato originario della rivolta di Reggio, ma diventò predominante di fronte ai ritardi, alle promesse non mantenute, all’incapacità decisionale della classe dirigente. Inizialmente, a Reggio, si mettevano alla berlina i potenti calabresi, i ministri e sottosegretari che determinavano le sorti regionali: Mancini, Misasi e Pucci. Li si accusava di baratti e spartizioni ai danni di Reggio, i cui rappresentanti politici e amministrativi erano accusati di tradimento degli interessi cittadini. Quella che io ho definito una retorica “populista localista”, poiché in nome del popolo reggino – entità indistinta come in tutti i populismi – si denigravano le élites che lo opprimevano. Dopo qualche mese di mancata soluzione della disputa, che riguardava tutte le principali aree territoriali calabresi, invece il Movimento sociale italiano ebbe gioco facile a spostare la critica verso il sistema dei partiti nel suo complesso, definendolo “mafioso”, “verticistico”, “corrotto”, distante dai bisogni della popolazione. Una retorica “populista antipartito” che i neofascisti veicolavano da decenni senza mai riuscire a darle una base di massa, come avvenne a Reggio.

Localismi e populismi antipartito sono temi di grande attualità ancora oggi…

Nel 2012 esce il suo secondo libro Prefetti in terra rossa. Conflittualità e ordine pubblico a Modena nel periodo del centrismo (1947-1953), quindi dalla Calabria, sua terra d’origine, ci spostiamo in Emilia Romagna: a cosa è dovuto questo radicale spostamento che ha catturato l’interesse per altro tipo di problematiche legate a una città diversa?
Il mio secondo libro nasce dalla stessa molla intellettuale, l’insoddisfazione per quelle “molteplici e facili suggestioni”, non a caso citate anche nell’incipit di questo lavoro, che si sono addensate su un periodo di straordinaria conflittualità sociale e politica come la I legislatura repubblicana, il periodo che va dalla rottura governativa dell’unità nazionale nel 1947 – a causa delle ripercussioni della Guerra fredda – al 1953, quando fallisce il progetto di “democrazia protetta” di De Gasperi, con cui si era cercato di mettere la nascente Repubblica democratica al sicuro dalle minacce – per la Dc – di un’ascesa socialcomunista. Siamo nel periodo caratterizzato dalla reggenza del ministero dell’Interno da parte del democristiano Mario Scelba, accusato di essere il responsabile dei numerosi eccidi di operai e contadini impegnati nelle lotte sociali del Secondo dopoguerra. Quelle vicende rimasero impresse nell’immaginario popolare anche attraverso canzoni che recitavano «Ma cosa fa quel Mario Scelba
 con la sua celere questura? Ma i comunisti non han paura 
difenderanno la libertà». Si tratta di Vi ricordate quel 18 aprile? (in questa versione “tradizionale” cantata da Giovanna Daffini http://www.youtube.com/watch?v=a3tEY158qgw). Ciò che non mi convinceva però era un’analisi che si fermava a una rappresentazione manichea, da una parte il bene e dall’altro il male, da una parte i poveri proletari in lotta e dall’altro il governo centrista definito anche “fascista”. Io, invece, volevo capire i meccanismi che conducevano a un esito così violento dei conflitti, andando a indagare l’azione della autorità di Pubblica sicurezza, vale a dire i prefetti e i loro collaboratori, sul territorio, quasi nella quotidianità. Così ho messo in relazione la prassi amministrativa e poliziesca degli uomini dello Stato con le loro biografie di alti funzionari formatisi durante il regime fascista, cercando di capire quanto pesasse la loro formazione “dittatoriale” e quindi la categoria resa celebre da Claudio Pavone, di “continuità dello Stato”… e ho capito che quei funzionari erano forse “educabili” alla democrazia se non fossero stati sottoposti a pressioni politiche determinate dall’anticomunismo delle Guerra fredda ma forse ancora maggiormente da una più remota abitudine delle classi dirigenti italiane a risolvere i conflitti i sociali con la forza, senza riconoscere legittimità agli oppositori sociali e politici, e soprattutto senza distinguerlo dal conflitto politico ed ideologico, se non dalla paura eversiva. Capacità di discernimento delle situazioni territoriali e di mediazione sono qualità richieste a un buon funzionario dello Stato, soprattutto ai prefetti che fino a un certo punto della storia italiana – ancora in gran parte anche se di meno negli anni Cinquanta – rappresentavano un terminale della vita pubblica nelle sue mille sfaccettature, i ricettori e i manipolatori (anche) dello spirito pubblico a livello locale.

Quali furono le vicende più drammatiche legate a Modena nel periodo del Centrismo?
A Modena il 9 gennaio 1950 vennero uccisi sei militanti comunisti dalle forze dell’ordine, durante una manifestazione di protesta contro la serrata di un grande stabilimento cittadino. Gli spararono dall’alto dello stabilimenti presidiato, a distanza, come in un “tiro al piccione”. Le vicende processuali hanno dimostrato che quell’intervento della forza pubblica era sproporzionato, non era commisurato alla minaccia, ma non sono mai stati individuati gli autori materiali… Ma non è questo eccesso in sé che si è focalizzata l’attenzione: io volevo capire come si arrivasse a un livello di incomunicabilità tale, tra autorità dello Stato e cittadini, da determinare un tale massacro. Per questo ho cercato di ricostruire una fase determinante per la vita politica nazionale e locale, soprattutto sotto il profilo della gestione dell’ordine pubblico, ricostruendo una trama di manifestazioni e divieti (anche quello di indossare i fazzoletti tricolore (!) da parte dei partigiani che avevano liberato l’Italia ma in quel momento lottavano per i lavoratori e le forze politiche di sinistra), di scioperi e serrate (la chiusura forzata delle fabbriche da parte dei “padroni” avveniva proprio – per stessa ammissione dei prefetti – come forma di licenziamento politico, per riassumere dopo personale disciplinato), occupazioni e sgomberi, delitti e arresti (in particolare riguardo alla vicenda degli omicidi postbellici del “triangolo della morte”, delle vendette contro i fascisti: il cosiddetto “processo alla Resistenza” che fu imbastito proprio in quel periodo). In tutto questo i prefetti, insieme ai questori in primis (ma su questi mancano le fonti…), avevano una responsabilità fondamentale. Spesso nelle loro relazioni al ministero dell’Interno appare un’opinione di critica verso gli imprenditori che chiedono una normalizzazione del conflitto forzata, troppo forzata, quasi vendicativa, ma poi eseguono le direttive politiche dei governi centristi (nessuno spazio ai socialcomunisti) e fanno rispettare la legge in un modo zelante e spesso persecutorio verso una gran massa di cittadini.

C’è qualcosa che lega le due città dal punto di vista storico?
Modena 1950 e Reggio Calabria 1970 rappresentano forse le più gravi crisi dell’ordine pubblico della storia repubblicana. Questo si può riscontrare anche leggendo il libro Polizia e protesta di Donatella Della Porta ed Herbert Reiter, che li portano a emblema di alcune fasi storiche del protest policing in Italia. Come ho già detto, però, non mi interessavano soltanto gli eccessi ma questi nel quadro delle dinamiche quotidiane: volevo capire come si arrivasse a un livello di incomunicabilità tale, tra autorità dello Stato e cittadini, da determinare situazioni incontrollabili e soprattutto deteriori per gli anni seguenti. Questo accomuna Modena e Reggio Calabria, forse paradossalmente… per alcuni anni della loro storia, gran parte dei cittadini di questi centri si sono sentiti perseguitati dallo Stato. Certo, a Modena, il tessuto sociale ed economico ha consentito comunque una crescita civile e anzi una specie di concorrenza positiva rispetto alla gestione della cosa pubblica da parte dello Stato, orientato negli anni Cinquanta e Sessanta all’anticomunismo e all’occupazione del potere da parte della Dc. Mentre a Reggio, le conseguenze sono state devastanti, poiché sul deserto di quella incomunicabilità tra Stato e cittadini hanno proliferato la ‘ndrangheta e le varie consortierie affaristiche. Si tratta di un argomento certamente ancora da approfondire

Ha qualche altro lavoro in cantiere?
Sì, veramente tanti, se riuscirò a sopravvivere a questo stato di “precario della ricerca” costretto a cercarsi il reddito in altre forme. Continuò a lavorare sull’ordine pubblico e proprio dalla ricerca di Modena sono partito per una riflessione sulla vita di un questore, Carmelo Marzano, al fine di ragionare sulle commistioni tra gestione della violenza sociale e politica e gestione della violenza comune, tra ordine pubblico e sicurezza pubblica. Parteciperò a un seminario nazionale patrocinato dalla Società italiana di storia contemporanea (Sissco) il prossimo anno con questo argomento.

Poi sto lavorando ancora sul concetto di populismo e di antipartito… ma soprattutto sto lavorando sul concetto di “maggioranza silenziosa”. La “silent majority” fu inventata da Richard Nixon in un suo celebre discorso del 3 novembre 1969, in cui chiedeva il sostegno di questa entità alla sua politica sul Vietnam, cercava il consenso del cittadino medio americano – stanco e disgustato dalle proteste dei pacifisti e degli hippies – per sconfiggere il ’68 americano. Quella ricerca di consenso si tradusse soprattutto nella rappresentazione di una base di legittimazione del potere attraverso sondaggi d’opinione, lettere al presidente, manifestazioni di veterani e di “gente perbene” e moderata. In una politica sempre più mediatizzata, si tratta di un concetto fondamentale: chi sta il potere usa spesso ancora oggi questa categoria per delegittimare gli sfidanti, i contestatori, accusandoli di prevaricare la maggioranza silenziosa, normale e ordinata, con il chiasso e la violenza delle proprie manifestazioni. Anche in questo caso, cerco di non fermarmi agli aspetti più superficiali, ma cerco di comprendere se veramente esiste un’opinione pubblica moderata e conservatrice che disdegna le proteste in quanto tali e ogni forma di anticonformismo anche culturale e morale… a partire dall’Italia, dove la “maggioranza silenziosa” è considerata una protesi del neofascismo, del Movimento sociale italiano, che cercò di mobilitarla all’inizio degli anni Settante a Milano e altrove. Alla fine forse fu così, eppure all’inizio anche il Corriere della Sera vedeva bene la discesa in piazza di cravatte e pellicce a difesa dell’ordine sociale… Su questo sono intervenuto ai Cantieri di storia Sissco di Salerno (11 settembre 2013 a Salerno), organizzando un panel che ha messo insieme studiosi giovani ed esperti, con differenze culturali e di sensibilità politica per cercare di capire quella che forse è la cultura profonda di questo paese, una cultura moderata e fondamentalmente di destra, simile a quella di molti altri paesi, eppure seppellita sotto le innumerevoli anomalie italiane.

 

 

Maria Ausilia Gulino

Teacher – Journalist