Mimmo Gangemi e il suo “giudice meschino”: due caratteri a confronto

Il cinismo è una caratteristica negativa che però affascina. Torna sempre utile perché aiuta a svincolarsi dalle emozioni, le quali spesso bloccano in qualche modo il volere dell’uomo. Un cinico è Alberto Lenzi, il “giudice meschino” di Mimmo Gangemi, che presto conosceremo attraverso le reti Rai. Di questo magistrato «donnaiolo e indolente» abbiamo voluto parlarne con chi lo ha “costruito” per conoscerlo meglio e per conoscere anche lo scrittore che nei suoi libri ha uno stile unico, coinvolgente e impeccabile. Mimmo Gangemi ci racconta della sua Calabria, positiva e negativa, dove hanno preso vita i suoi personaggi, che in alcuni casi hanno avuto la possibilità del riscatto sociale.

Alberto Lenzi è Il giudice meschino che vedremo presto in televisione. Ci dica, chi le ha ispirato questo personaggio, com’è nato?
Me lo ha ispirato la fantasia, nessun riferimento particolare nel delinearlo. Tuttavia, esistono molti magistrati che gli assomigliano, disincantati da certa Giustizia che talvolta si scosta dalla funzione di servizio per diventare casta, infallibile, quasi fosse condotta da mano divina, e protagonista accecata dai microfoni e dalla notorietà. Sia chiaro, i più operano bene, nell’anonimato e nel silenzio, e sono i migliori. Fanno però notizia gli altri. Lenzi è il risultato della mia consapevolezza dell’esistenza di guasti all’interno della magistratura. Per assurdo, egli, anomalo come giudice, uno che tende ad applicare una Giustizia tutta sua, con lo sterzo – «tu paghi da innocente un delitto a scomputo dei tanti che hai invece commesso scampando il carcere» – alla fine diventa un modello positivo, anche perché mette a nudo le deviazioni del sistema.

Ci sono delle affinità anche con il personaggio di Montalbano, in cosa si differiscono i due personaggi?
Lenzi è un magistrato indolente, sfaticato, donnaiolo, cinico a volte. È uno che tende a evitare le rogne. Si cala nel ruolo e diventa abile investigatore solo quando gli scattano motivazioni personali generate dal dolore, dalla voglia di rivalsa, dalla sfida, gli occorre cioè caricarsi emotivamente prima di scuotersi dal letargo e mostrare il giudice con gli attributi. Montalbano, nonostante le stravaganze, è un commissario ligio al dovere, scrupoloso, mai indifferente o estraneo al suo mondo. Molto diversi i due, perciò. L’unica affinità, le volte in cui Montalbano adatta la Giustizia alla sua coscienza. Un’affinità vaga però, dato che Lenzi tende a costruirsela lui, la Giustizia, a stirarne l’idea al punto da deformarla.

Sono presenti tragicità e commozione: quando l’una prevale sull’altra? E lei quale preferisce?
Ne Il giudice meschino e ne Il patto del giudice, le due indagini del giudice Lenzi, i miei romanzi noir, prevale la tragicità, per la cronaca sanguinolente che macchia la quotidianità. C’è la fantasia che mette in scena una storia verosimile, possibile, che non si è verificata ma non meraviglierebbe se dovesse verificarsi in termini simili.

Tragicità e commozione sono invece presenti assieme ne La signora di Ellis Island, una saga familiare che racconta settant’anni di una famiglia contadina dell’Aspromonte – a partire dall’emigrazione in America del capostipite, nel 1902 – il suo passaggio attraverso la storia senza diventarne protagonista appieno, più vittima che artefice degli eventi. Compaiono presenti assieme perché le vicende umane sono, appunto, umane e, come tali, si dipanano in quel doloroso tempo di mezzo tra la nascita e la morte. La tragicità non prevale sulla commozione. Ma nemmeno il contrario. Piuttosto si interconnettono. È quando si concretizza la sequenza di tragicità e di commozione, quando cioè il lettore ricava emozioni dalla lettura, che l’opera ha assolto degnamente il suo compito, è un’opera riuscita.

Nei suoi libri traccia una immagine chiara della Calabria: a quale è maggiormente affezionato e perché?
Io vivo la Calabria da sempre. Ci sono nato, sono rimasto. La conosco bene. Con i tanti pregi e i tanti difetti. Se ho deciso di fermare qui i miei giorni è perché ho messo su un piatto della bilancia le negatività, il bubbone della ’ndrangheta su tutte, assieme alla malattia di una connivenza mentale che non si riesce a estirpare del tutto, sull’altro le positività altrove in via di estinzione, quali l’accoglienza, la solidarietà, il senso della famiglia, la gioia di vivere e l’allegria, oltre che la bellezza dei luoghi, e il piatto è sceso da quest’ultima parte.

Considero i miei noir libri di denuncia, già per il solo fatto di porre il calabrese davanti a uno specchio che non inganna – il punto da cui ripartire è la consapevolezza del livello di degrado a cui una sparuta minoranza che delinque o naviga nel torbido ci ha portati.

Mi piace di più scrivere storie che raccontano il riscatto. La signora di Ellis Island lo fa. Grande quella generazione che è stata capace di mutare l’immutabile, di deviare un destino che sembrava già tracciato dai pochi ricchi che possedevano la fame e la sopravvivenza dei più.

Invece in quale personaggio si identifica o le piacerebbe assomigliare?
L’autore di un romanzo spesso racconta se stesso nel protagonista, o parti di se stesso, o il rimpianto, ciò che gli avrebbe aggradato essere e non è diventato. Nel giudice Lenzi c’è anche Mimmo Gangemi, un miscuglio di com’è e di come si sarebbe piaciuto di più, magari con un po’ di cinismo, che torna sempre utile, quel tanto che sarebbe bastato per farsi avvolgere meno dalle emozioni, che talvolta troppo sanno assomigliare al dolore. Ma forse senza tutte quelle emozioni non ci sarebbe stato lo scrittore. E allora va bene così.

Che libri legge e chi sono i suoi scrittori preferiti?
Prediligo i noir – gialli Mondadori ne ho letti centinaia – e le saghe familiari. Non a caso si tratta dei due generi su cui mi cimento di più. Ma non disdegno la commedia e il romanzo storico.

Il mio libro preferito è Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Mi piacciono molto i libri di Leonardo Sciascia. Invidio al mio amico Giancarlo De Cataldo Romanzo criminale. Quando sono nella fase “acuta” di scrittura, evito di leggere opere di altri, mi condizionerebbero, rischierei di succhiare qualcosa e di deviare dal mio stile, che giudico unico e particolare e che non intendo guastare.

Qual è il messaggio che vorrebbe che i suoi lettori apprendessero dopo aver letto i suoi libri?
Non mi spinge l’idea di trasmettere messaggi. Io scrivo per me stesso, per soddisfare il mio animo, non mi pongo il problema di diventare una specie di missionario che orienti il pensiero e le azioni altrui. È il lettore che deve trovare la sua chiave di lettura, le emozioni, e, se vuole, anche un qualche messaggio, che è però già dentro la sua testa e non nei miei intenti.

 

 

Maria Ausilia Gulino

Teacher – Journalist