Guido Mattioni e la qualità letteraria premiata dagli Stati Uniti

Spesso scrivere ha la capacità curativa: viene esercitato per raccontarsi, analizzarsi ed elevarsi al cambiamento che può coincidere con la liberazione del dolore. Ma anche per combattere fantasmi del passato e aiutarsi con la musicalità della lingua italiana a ritrovare quella concezione di purezza che oggi va sminuendo. Così è stato per il giornalista Guido Mattioni che, con il suo romanzo d’esordio, Ascoltavo le maree, narra un’esperienza che da un giorno all’altro può colpire la quotidianità di chiunque, aiutando in seguito a curarne le ferite. Ma Mattioni prima di arrivare in Italia ha raggiunto il successo negli Stati Uniti, che hanno premiato la qualità della sua opera vincendo la sezione Multicultural Fiction dei Global eBook Awards di Santa Barbara, «dov’ero l’unico concorrente italiano su oltre mille partecipanti» scrive, e adottandolo come «libro di testo nei Corsi di Italiano della Georgia State University di Atlanta e in quelli della Learn Italy di New York, la prima scuola privata di Italiano negli Usa». Abbiamo avuto il piacere di conoscerlo, e di capire perché qualità ed esigenze commerciali, per quanto riguarda i libri, tante volte non collimano.

C’è qualche componente autobiografica nel suo libro d’esordio? Come mai ha scelto di tracciare il dolore attraverso un lutto?
Questo romanzo non è la mia autobiografia, ma scaturisce da un episodio molto doloroso della mia vita: la scomparsa improvvisa della mia prima moglie, nel 2002. Poi è chiaro che come in quasi ogni romanzo, in special modo se di tipo intimista, quale indubbiamente è Ascoltavo le maree, vi ho trasferito spezzoni esistenziali, personaggi e scorci di mondo che ho rispettivamente vissuto, conosciuto e percorso. Fatta questa precisazione, il resto della vicenda narrata è pura fiction. Quanto al perché io abbia voluto raccontare in un romanzo il dolore e l’elaborazione di un lutto, penso di poter dare almeno tre risposte, che si integrano l’una nell’altra: innanzitutto perché dolore e lutto, insieme alla memoria, fanno parte della vita; in secondo luogo perché avendo ricevuto un dono, quello di saper scrivere, ho pensato di poterlo restituire almeno in parte cercando di aiutare, attraverso la lettura, altre persone; infine, perché avendo vissuto un’esperienza dolorosa, scriverne ha fatto parte della mia guarigione, ha accelerato la cicatrizzazione delle mie ferite interiori.

Come nascono i suoi personaggi?
I personaggi che si alternano e si incrociano nel mio romanzo, come in tanti altri, sono in parte inventati, ma perlopiù reali, anche se ovviamente travisati in mondo da tutelarne la privacy. Devo fare tuttavia una premessa: se Ascoltavo le maree è il mio romanzo di esordio, in realtà io ho fatto lo storyteller per 37 anni, quanti sono quelli che ho dedicato alla professione giornalistica, spesi perlopiù come inviato speciale in giro per il mondo a raccontare piccoli e grandi fatti, così come piccoli e grandi personaggi. Faccio questa premessa per onestà intellettuale: raccontare vita vera è il mio imprinting, nel senso che non sarei capace di scrivere racconti fantasy popolati da unicorni e maghetti. È l’ammissione di un limite, non una forma di presunzione.

A quale personaggio è legato di più e perché?
A più d’uno, in special modo a quelli che corrispondono a persone vere, autentiche, entrate nella mia vita. Chi leggerà il romanzo li individuerà e sono certo che imparerà a conoscerli. Parlo per esempio di Liz, la piccola fioraia dal cuore immenso; oppure di Morty, eccentrico riccone divenuto tassista per noia e filosofo per vocazione; o ancora di Bill Dunn, uno strano sindaco fuori dal comune, in quanto senza un Comune da amministrare. Ma potrei aggiungere Peachee, un bizzarro gatto pescatore, oppure la statua di un Lord inglese che ovviamente non parla, ma che sa ascoltare. Senza dimenticare altre due “Lei”, co-protagoniste di un romanzo che è prevalentemente al femminile: la città di Savannah, in Georgia, e Madre Natura, che diventa la maestra di vita del protagonista indicandogli la via da seguire nel suo viaggio interiore alla ricerca di se stesso.

Si parla del dolore e della rinascita, per questo è considerato anche un romanzo di formazione, ma secondo lei, per rinascere davvero, che tipo di percorso interiore bisogna fare?
Potrà sembrare strano dovendo dare un’indicazione concreta, ma la prima parola che mi viene in mente, per rispondere a questa domanda è soltanto una: sognare. Sono profondamente convinto che se sognare per un bambino è un diritto inalienabile, per uno della mia età, un ex bambino dei primi anni Cinquanta, sognare diventa invece un fondamentale dovere. Direi di più: un “salutare” obbligo. Non dobbiamo vergognarci di ritornare ogni tanto bambini; anzi, se ci riusciamo è una fortuna e un privilegio, è qualcosa che rende paradossalmente la vita più adulta e comunque migliore, perché lontana dai compromessi ai quali da adulti ci adattiamo finendo con il vendere la nostra anima come fa il dottor Faust. Pensiamoci: è solo un bambino ad avere il coraggio civile di dire che “il re è nudo”. Ecco, io penso che il nostro Paese, e il mondo in generale, sarebbero luoghi migliori se noi adulti avessimo più spesso questo coraggio civile. Perché ci sono tanti re nudi, in giro, ma sono troppo pochi quelli che osano dirlo puntando anche il dito.

Il suo successo arriva dagli Usa, a cui lei sembra molto legato, in cosa si differenziano dall’Italia per quanto riguarda la diffusione dei libri?
Altra premessa: amo l’America con i suoi pregi e i suoi difetti. La giro da più di trent’anni, l’ho vista tutta, ne ho scritto tanto come giornalista e la conosco meglio di quanto conosca l’Italia. Lì ho potuto pubblicare a costo zero, nel 2011, per la prima volta, il mio romanzo, allora in ebook e selfpublished, sia in italiano sia in inglese. Ero “emigrato” come autore perché nonostante il mio curriculum professionale gli editori nazionali ai quali mi ero rivolto non avevano nemmeno risposto «No»(che diamine, almeno per buona educazione!) alle email in cui chiedevo: «Posso mandarvi il mio manoscritto?» A giudicare da cosa viene invece pubblicato oggi in Italia, penso che se avessi fatto il calciatore, il cantante o il cabarettista avrei avuto più possibilità di ascolto. Sempre in America il mio romanzo in inglese ha vinto quest’anno la sezione Multicultural Fiction dei Global eBook Awards di Santa Barbara, in California, dov’ero l’unico concorrente italiano su oltre mille partecipanti. Mentre Ascoltavo le maree è stato adottato come libro di testo nei Corsi di Italiano della Georgia State University di Atlanta e in quelli della Learn Italy di New York, la prima scuola privata di Italiano negli Usa. Penso così di aver risposto alla domanda. Nel senso che anche in editoria l’America dimostra i suoi maggiori pregi: rispetto del merito; essere aperta agli altri; non avere paura di cambiare. Infine, proprio sulla base dei risultati ottenuti oltre Oceano, ho avuto la fortuna di essere stato cercato da un bravissimo e raffinato editore indipendente come Francesco Bogliari che mi ha voluto proprio per lanciare nel marzo 2013, con Ascoltavo le maree, il suo nuovo marchio di narrativa Ink, andato ad aggiungersi ai marchi Mind e Metamorfosi del suo gruppo milanese Media & Co.

A breve uscirà il suo secondo romanzo, qualche anticipazione sui temi?
Uscirà a primavera, sempre per i tipi di Ink. Avrà ancora un’ambientazione americana, ma diversissima da quella di Ascoltavo le maree. La vicenda – inventata – si svolge sullo sfondo drammaticamente reale e crudo della zona calda dell’immigrazione clandestina tra Messico e Texas, una realtà che avevo conosciuto anni addietro per un reportage giornalistico. Ci sarà quindi più azione, anche se i protagonisti saranno sempre gli esseri umani con i loro sentimenti. Più un pizzico favolistico, che amo molto, e un ulteriore doveroso omaggio anche qui a Madre Natura. Perché penso che Lei se lo meriti e che noi glielo dobbiamo.

Quando scrive i suoi libri, cosa le piacerebbe che i suoi lettori percepissero e, dunque, “imparassero”?
Mi guardo bene dal lanciare messaggi e diffido di chi lo fa. Quanto ai cosiddetti “intellettuali”, ne ho la medesima opinione che ne aveva Giorgio Manganelli, quando li definiva «Questo risibile quinto Stato». Mi basterebbe che dai miei libri i lettori reimparassero a riconoscere il buon Italiano, quello del quale oggi si è persa traccia anche nelle pagine di molti (troppi) cosiddetti bestseller commerciali, dato che la quantità (copie vendute) è di rado sinonimo di qualità. Dopo quasi quarant’anni di mestiere passati a scrivere, riscrivere, correggere e sistemare cose mie o di altri – tutti i giorni e spesso anche di notte – questa è la sola presunzione che mi sento di poter avere. Spero che lo capiscano soprattutto i giovani, quelli che scrivono “che” con la “K” e “per” con la “X”. Voglio dire loro: abbiamo la più bella lingua del mondo, la più ricca e la più musicale, ma per colpa di una scuola distratta, di genitori che lo sono ancora di più, degli sms e della tv sempre accesa, la stiamo massacrando e perdendo. E questa non è una semplice colpa, è un autentico crimine.

 

Maria Ausilia Gulino

Teacher – Journalist