Il bonobo e l’ateo – Franz De Waal
Può un primate dirci qualcosa riguardo alla nostra moralità? La domanda potrà sembrare strana, soprattutto a quanti credono, con Descartes, che la nostra vita sia pienamente guidata dalla Ragione. Eppure le neuroscienze sembrano dare sempre più credito al pensiero di Baruch Spinoza, che per primo pose l’accento sull’importanza delle emozioni nella nostra vita. Secondo il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio alla base del comportamento umano non starebbe il rigore logico della ragione, ma le emozioni, in passato sottovalutate da ricercatori e filosofi poiché ritenute “elementi di confusione”.
Sono proprio le emozioni il tema cardine dell’ultimo lavoro dell’etologo Frans De Waal, e in particolare tutta quella vasta gamma emotiva volta alla socializzazione, quali l’empatia, il conforto, l’altruismo, tutte azioni da sempre considerate appannaggio della più alta etica umana, ma che De Waal non ha alcuna fatica a dimostrare ampiamente già fra i primati. La sua sfida può racchiudersi nella domanda:
Perché non supporre che la nostra umanità, compreso l’autocontrollo necessario in una società vivibile, sia innata in noi?
L’attenta osservazione del comportamento dei primati sembra infatti dirci che, contrariamente a quanto si possa pensare, la morale è un fenomeno molto più antico di qualsiasi religione. Non soltanto i primati, ma anche animali meno evoluti ci danno prova del loro solido “piano valoriale”: si prodigano nello sforzo del rispetto reciproco, si indignano di fronte a comportamenti iniqui, si moderano per scongiurare la deriva violenta dei contrasti, si confortano l’un l’altro nei momenti tristi.
Nell’osservare la realtà dei nostri precursori, si ha come la sensazione di dialogare con qualcuno che sappia molto di noi, quasi tutto. Da questa scoperta nasce un senso di profonda meraviglia, quella thauma aristotelica, scintilla del filosofare, che implica non soltanto la meraviglia, ma anche il senso di timore che si produce quando ci raffrontiamo a qualcosa che travalica la nostra ragione. Guardando indietro, non si può non restare meravigliati nel riconoscere il nostro stesso sguardo, la nostra stessa esigenza di valori anche nei primati, ma la meraviglia si accompagna al timore di perdere il nostro ruolo privilegiato sulla terra, la paura di frammentare i dogmi e le verità religiose sulle quali ci siamo edificati, i valori laici, i diritti innegabili, le cosiddette “verità oggettive e sacrosante”.
Tuttavia, c’è anche il senso di un nuovo percorso che potrebbe permettere all’uomo, grazie a quella razionalità che nel limitarsi si definisce, di avvicinarsi un po’ di più alla comprensione di se stesso, della sua storia, e magari del suo futuro. Per far ciò, parafrasando Pascal, è necessario che la ragione compia il suo «ultimo passo», e cioè «riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano».
Dal Protagora di Platone leggiamo:
Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?« «A tutti – rispose Zeus – e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia».
Se è vero che i miti descrivono realtà ancestrali, conflitti insiti nella natura dell’uomo, o eventi relegati in quelle epoche remote che hanno lentamente plasmato l’Homo Sapiens, credo che il mito di Prometeo, così come è raccontato in questo brano del Protagora platonico, riletto alla luce di ciò che l’antropologia ci insegna oggi, rappresenti la metafora perfetta per esprimere uno dei passaggi più complessi nella genesi del comportamento morale nei primati.
Il mito sembra infatti serbare il ricordo di un’epoca nella quale l’uomo (o meglio i suoi lontani precursori) erano privi del senso di giustizia ed equità, componenti fondanti della morale. Le parole di Platone risultano particolarmente significative, perché puntano a ricordarci di come tali sentimenti siano insiti nell’animo di tutti gli uomini, nessuno escluso.
Se l’avvento del senso di giustizia sia un dono di Zeus o meno, questo Frans de Waal non potrà rivelarcelo, tuttavia concorderà certo con Platone sull’importanza che tale emozione (e sottolineamo emozione) svolse, e svolge ancora oggi, nella aggregazione e socializzazione fra primati, uomo compreso.
La moralità non è un’innovazione umana, come ci piacerebbe pensare. Alla base della nostra etica ci sono compassione, empatia e consapevolezza dell’altro. Se non si prova tutto questo, è difficile avere senso morale. E poi? C’è la reciprocità dei gesti che significa equità, ossia ricambiare chi fa una cosa buona o giusta per noi, ed essere riconoscenti. Lo si può chiamare senso di giustizia. Anche nei primati tutto questo esiste.
L’idea che la moralità sia scolpita nell’animo umano è antichissima; numerosi pensatori l’hanno propugnata nei secoli, e il pensiero platonico lo testimonia. Tuttavia la supremazia della religione cristiana nel mondo occidentale ha contribuito a diffondere una visione diversa della moralità. L’iconografia cristiana classica ci ha dipinto come “gemme del creato”, esseri ben distinti dagli animali privi di raziocinio. Per il cristianesimo la morale è un fatto interamente umano, essendo l’uomo l’unica creatura dotata di anima. A questo proposito riportiamo l’intrigante supposizione di De Waal:
I nomadi del deserto conoscevano soltanto antilopi, serpenti, dromedari, capre e simili. Non sorprende che essi percepissero una grande disparità fra gli esseri umani e gli animali, riservando l’anima soltanto a noi. I loro discendenti furono molto scossi quando, nel 1835, vennero esposte allo zoo di Londra le prime scimmie antropoidi vive. Molte persone si sentirono offese, non riuscendo a trattenere il disgusto. La regina Vittoria giudicò le scimmie “dolorosamente e sgradevolmente umane”.
La mente umana è stata spesso descritta come tabula rasa su cui imprimere i valori, o peggio, come vaso di Pandora ricolmo di ogni male che solo la religione, in quanto detentrice della verità, riuscirebbe provvidamente a contenere e correggere. “Teoria della vernice”, così la chiama De Waal. La vernice sarebbe rappresentata da quei valori imposti dalla società, ma normati dalla religione, necessari a stemperare la malvagità dell’animo umano. Gran parte della cultura occidentale si è nutrita di questo paradigma, che riecheggia nell’homo homini lupus hobbesiano o nelle idee di Ivàn Karamazov, secondo il quale solo l’esistenza di Dio ci impedisce di commettere le più turpi atrocità.
Di fronte a prospettive così cupe che, in un futuro sempre più secolarizzato, costringerebbero l’uomo a rispondere solo ai propri istinti, senza alcun freno etico di natura laica in grado di contenerli, il bonobo, questa sorprendente scimmia antropomorfa, si farebbe una lunga risata, come è solito fare durante le lunghe ore di gioco. Esso infatti, pur essendo estraneo a qualsiasi dottrina religiosa, più di ogni altro primate rivela la presenza di atteggiamenti morali volti all’altruismo, al rispetto reciproco e all’equità. Conduce gran parte del tempo in armonia coi suoi simili e non ama stemperare i contrasti con la violenza – come spesso accade agli scimpanzé – ma col gioco e l’attività sessuale; non a caso molti lo ritengono un “campione della sinistra” per via delle sue società matriarcali, “pacifiste” e sessualmente aperte.
Eppure non lasciamoci ingannare: anche i bonobo, al pari dei violenti scimpanzé, presentano delle gerarchie e delle norme molto rigide a cui rispondere. Ed è proprio nel rispetto per le gerarchie che De Waal individua le forme embrionali di moralità. Solo il riconoscimento di una gerarchia può infatti sancire la nascita di un ordine morale mediante il conferimento di autorevolezza ad un determinato piano valoriale.
Se da un canto tali scoperte contribuiscono a marginalizzare sempre più l’elemento razionale, dall’altro ci confermano che la bontà umana, lungi dall’essere una nostra invenzione, sarebbe un impulso innato nella nostra specie e in quella dei nostri precursori, costituito da una vasta gamma di emozioni essenziali per una solida vita di gruppo. Tali emozioni tuttavia, è innegabile, in noi si ritrovano a stretto contatto con la “volontà di potenza”, per dirla con Nietzsche, configurando la specie umana come uno strano “incrocio” tra bonobo e scimpanzé. Sul connubio tra tendenze così divergenti, e sul suo possibile significato in chiave evoluzionistica, De Waal preferisce tuttavia non sbilanciarsi con giudizi che la scienza ancora oggi non può fornirci. Ciò che è certo, è che la nostra etica antropocentrica andrebbe radicalmente rivista, considerati i pregiudizi sui quali è stata fondata.
Se dunque la morale si ritrova già fra i primati ed è insita in noi, perché nasce la religione?
La risposta del primatologo è convincente ma con ogni probabilità parziale, e quindi non definitiva. Egli infatti sostiene che la religione nasca nel momento in cui le società ristrette dei nostri precursori, grazie al senso di giustizia e all’istinto di socializzazione, iniziarono ad allargarsi da centinaia a migliaia di esemplari. Mentre nei ristretti gruppi tribali i membri potevano controllarsi l’un l’altro, esercitando vicendevolmente pressioni “moralizzanti”, in gruppi ampliati divenne sempre più complesso “sorvegliarsi” a tempo pieno; ciò avrebbe indotto alla creazione immaginaria di una figura morale onnipresente. Ma la religione non sarebbe mai nata se a tutto questo non si fosse affiancato un importante ruolo sociale.
Nell’analisi della genesi del sentimento religioso De Waal dimostra un raro senso di tolleranza ed apertura: la religione è un fenomeno fin troppo vasto e radicato nell’uomo per poter essere svilito ad “oppio dei popoli”. Nessuna forma di religione si sarebbe mai potuta imporre se l’uomo stesso non fosse stato naturalmente predisposto ad essa. È per tali ragioni che l’etologo redarguisce neoatei del calibro di Hitchens o Dawkins che si affannerebbero in un’impresa disperata, oltre che inutile, come sopprimere un fenomeno umano quale è la religione (a riprova di ciò, De Waal ricorda gli eventi tragici seguiti nei rari casi di ateismo di stato).
Pur prediligendo il connazionale Spinoza, nella sua analisi De Waal mostra di accogliere in pieno il “metodo” cartesiano, rivolgendo l’arma del dubbio verso tutto ciò che lo circonda, ma prima ancora su se stesso. Egli infatti nel professarsi ateo, e ponendo l’ateismo al centro delle sue attenzioni, procede a vagliare il suo stesso pensiero, coi suoi vantaggi, ma soprattutto coi suoi limiti.
Ciò che i neoatei sugli scudi accusano alla religione, ovvero l’oscurantismo, il pregiudizio e l’intolleranza, per il primatologo non sono altro che stati emotivi cui nemmeno gli scienziati più lucidi possono considerarsi esenti: basti pensare a quante nuove scoperte vengono osteggiate, anche inconsciamente, per il loro potere dirompente e “scomodo”; o a quanta intolleranza e pregiudizio si nasconda dietro le accuse dei neoatei alla religione. Di fronte ai campanilismi faziosi degli schieramenti avversi, De Waal, appianando in un istante le secolari diatribe tra uomini di scienza e di fede, ci apre una terza via, là dove prima non sembrava esserci più spazio, ed è la via della conciliazione e della tolleranza:
la sete di conoscenza, la linfa vitale della nostra conoscenza, colma un vuoto spirituale che nella maggior parte delle altre persone è colmato dalla religione.
Religione e scienza si raccordano così nell’esigenza spirituale dell’uomo, nella sua sete di conoscenza, nel suo bisogno, profondamente emotivo, di sentirsi docile fibra dell’universo, essere integrato agli altri esseri e al mondo che lo circonda. Il vero pericolo non è quindi la fede in qualcosa di indimostrabile, quanto la “sostituzione del pensiero con il dogma”:
Il nemico della scienza non è la religione. La religione si presenta in infinite forme e manifestazioni e ci sono infinità di persone credenti di mente aperta, che raccolgono e scelgono solo certe parti della loro religione e non hanno alcun problema con la scienza. Il vero nemico è la sostituzione del pensiero, della riflessione e della curiosità con il dogma.
Non è facile formulare un giudizio definitivo su questo testo, considerati i numerosi spunti di riflessione cui ci induce. Indubbiamente, la sua lettura rappresenta un’esperienza vivace e stimolante, la prosa di De Wall è talmente coinvolgente e piana da non stancare mai, virtù preziose per chi si accinge a divulgare tematiche scientifiche o filosofiche. Il bonobo e l’ateo non è soltanto un magnifico ritratto dei nostri fratelli primati, ma contiene un viaggio attraverso l’arte di Bosch, le neuroscienze, le diatribe accademiche fra uomini di fede e neoatei, ma soprattutto è un invito concreto a riconsiderare la nostra società alla luce delle scoperte in ambito biologico ed antropologico. De Waal rifugge i miraggi dello scientismo, sa bene che la conoscenza delle nostre origini non può dirci come vivere, cosa sia bene e cosa male, ma crede tuttavia che solo attraverso questa strada si potranno ridefinire in maniera più concreta i nostri limiti e le nostre potenzialità: molte delle nostre ambizioni spirituali fondano infatti su presupposti biologici improbabili e incongruenti, così come diverse ideologie del passato hanno dovuto fare i conti con incompatibilità biologiche più che sociali. Per non parlare dell’uso talvolta criminoso dei concetti di diritto o di anima: quanti soprusi di potere si sono esercitati in nome di dogmi religiosi, o di diritti inalienabili.
La conferma di una ben definita moralità negli animali stravolge i piani della coscienza, priva dell’esattezza la scienza sociale, “ridimensiona” l’animo umano, rimescola le carte sui nostri diritti, sul bene e male, proiettandoci ad un livello in cui le stesse categorie di bene e male risultino restrittive. Al contempo, tuttavia, ci dona un messaggio positivo e inequivocabile sull’importanza del propagare la vita, mostrandoci lo sforzo che gli esseri viventi giorno dopo giorno mettono in atto per preservare se stessi e gli altri.
Il bonobo e l’ateo. In cerca di umanità fra i primati
Franz De Waal
Raffaello Cortina, 2013
Pagine 300
Prezzo di copertina € 28,00
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