Sia fatta la mia volontà – Marina Sozzi

Il libro di Marina Sozzi tratta i temi della morte e del morire sviscerati, non solo perché l’autrice è interessata personalmente, ma in quanto studiosa di tanatologia e docente nell’Università di Torino. Come consulente ha messo tutta la sua esperienza accademica al servizio di società non profit, senza mai smettere di cimentarsi in alti studi riguardanti la filosofia materialistica francese e lo studio interdisciplinare della morte.

Fino a poco tempo fa era poco gradevole parlare della “signora nera”, ma la sobrietà con cui lo fa Marina Sozzi ci fa diventare più saggi, non ci fa sentire soli al centro del mondo, come recita nella sua poesia, Ed è subito sera,  Salvatore Quasimodo. Non sentirsi immortali, in definitiva, rende cosciente il percorso del nostro cammino, che prima o dopo finirà per tutti senza tante sorprese, così come scritto nel destino di ognuno. Dopo avere studiato diversi casi di sofferenze che portano alla morte, l’autrice invita a riflettere su quest’ultimo evento del percorso dell’umanità, un invito oltre che da tanatologa da portatrice di un tumore maligno che, superatolo, l’ha indotta a rivedere il concetto di immortalità. Non tutti sanno coniugare il verbo della morte, io muoio, tu…mu…ecc., forse per paura o per l’angoscia che crea, specie quando il morto che si ha innanzi fa accrescere quell’atmosfera di rispetto e nel contempo di repulsione e fa astenere dall’emettere giudizi su di esso. Sia fatta la mia volontà nasce da una commedia teatrale, dallo stesso titolo, eseguita dal gruppo romano “Schegge di cotone”, che indagava su come impostare il rito civile di un funerale, dal momento in cui oltre al rito religioso si praticava quello laico, con la cremazione. Il tema della morte sale alla ribalta di quelli attuali per le recenti rivendicazioni della cd  “morte assistita” e, soprattutto perché, basandosi sul principio della Bibbia che fonda l’etica della vita sull’inviolabilità della medesima, sollecita un dibattito che mina alle fondamenta il privilegio esclusivo della chiesa a parlare di morte.

L’autrice si inserisce autorevolmente in questo dibattito, iniziando la sua ricerca a partire dalla storia dei riti funebri, nel tentativo di assegnare alla morte un ruolo normale nella vita dell’individuo e spogliarla così da quella visione di incidentalità che l’essere vivente vuole ancora assegnarle, come a sentirsi immortale, così come sostiene lo stesso Freud: «Il nostro inconscio non crede alla possibilità della propria morte».

Da ciò scaturisce il paradosso della condizione umana, che non si proietta più in modo conservativo, in quanto ad un certo punto le pulsioni si capovolgono e non sono di autoconservazione ma di anti-conservazione. L’autrice produce delle analisi  tendenti ad assegnare alla morte, nella realtà e nei nostri pensieri, un posto naturale, pone delle domande che tutti pensiamo ma che non riveliamo, perché il solo pensiero di affrontare questo tema è da respingere, la indica come fatto evolutivo della vita, allineandosi a Schopenhauer quando sostiene che la vita è «un continuo morire» e l’uomo indirizza il suo timone, a tutta dritta, verso il fine ultimo che è la conclusione della propria esistenza.

Non è facile accettare di morire se si tiene conto che le università, che formano i medici ontologicamente e pedagogicamente, insegnano come fare la guerra alla morte, battendosi per sottrarre la vita dei pazienti alla “dama con la falce”. La stessa etica è presente tra i pazienti al punto che, se qualche medico fallisce la cura, inevitabilmente, viene marchiato di incapacità o, meglio, considerato come colui che non rispetta il giuramento moderno di Ippocrate.

Pensando all’ibernazione, nata come metodo di spostamento della propria esistenza individuale nel tempo, desiderio diffuso anche fra la popolazione che produsse nel passato dei ciarlatani pronti a vendere piccole boccettine di elisir di lunga vita, la vita e la morte vengono vissute da tutti non allo stesso modo ed anche con forme diverse di ritualità. La maggioranza delle persone, alla notizia della morte di qualcuno, si pone spesso la  domanda: di che cosa è morto?

La morte, sostiene Heidegger, «è per l’esserci la possibilità di non poter più esserci», non è quindi una cosa accessoria all’essere, ma è insuperabile al punto da essere «l’orizzonte in cui si iscrive la vita», in quanto sovrasta l’essere.

Per Sartre l’uomo è fondamentalmente il desiderio di essere Dio, ma un Dio mancato, per questo la morte è vista come una sciagura, qualcosa di incidentale, come quando si libera nell’aria un palloncino e si sa che prima o dopo scoppierà, pur non sapendo quando, quindi Sartre non ravvede il bisogno di prepararsi all’avvenimento. La scienza si muove nella direzione non solo di rallentare ma addirittura di invertire il processo d’invecchiamento con la crionica, con la clonazione ed infine con la creazione di geni artificiali che, immessi nell’organismo, curano efficacemente alcune patologie. L’autrice, pur ammettendo la forza persuasiva di questi esperimenti che potrebbero allungare la vita, rimane nella convinzione che la scienza biologica non ha saputo ancora trovare risposte al perché si muore.

Richiama la tesi di Guy Brown, che dirige a Cambridge un gruppo di ricerca sulla morte cellulare e quella di Aubrey De Grey, che vede nella natura dominare la strategia di conservazione, la quale predilige il genere umano al singolo, capace di poter modificare questo progetto. La tesi di De Grey quindi è basata sul fatto che l’invecchiamento è una malattia in quanto risultato di effetti molecolari e cellulari, prodotti dal metabolismo non in grado di eliminarli: questo accumularsi di  “spazzatura” all’interno dell’organismo ne riduce l’efficienza, produce malattie a ripetizione e infine la morte, processo che per lui potrebbe essere sconfitto e persino invertito. L’autrice afferma che forse questo è un modo per evitare di ricordare che l’uomo, quale essere vivente, è un organismo a termine. Cita Umberto Veronesi quando afferma che «morire è un dovere biologico e la sofferenza invece non serve a nulla», e parla di cure palliative dei malati terminali che trovano convergenti religiosi e laici, e dell’eutanasia che purtroppo li divide.

Non è da dimenticare l’appello di Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica sull’applicazione dell’eutanasia, mettendo in evidenza l’accanimento terapeutico che spesso si contrappone all’abbandono terapeutico. Molto approfondita è l’analisi riguardante le cure palliative, le difficoltà del medico palliativista per la poca conoscenza del paziente e la poca competenza del medico di famiglia che, pur avendo una conoscenza maggiore del paziente, è diventato solo uno scribacchino di ricette. Fa una accurata radiografia sul rapporto fra medico e paziente, fra strutture sanitarie e funzionamento, fra costi delle prestazioni e benefici, dove il tutto si piega alla logica della contrazione della spesa senza il minimo approfondimento sul significato della vita umana. Fa un excursus, con tanto candore intellettuale, molto significativo sulla decisione della propria vita, mette in evidenza la posizione della Chiesa cattolica sull’indisponibilità della vita, in quanto solo Dio può disporre di darla o toglierla, in contrapposizione alla tesi laica, la quale sostiene che la vita appartiene solo all’uomo e nessuno, nè Dio, nè lo Stato e neanche i familiari possono disporne. Scende nei particolari delle vicissitudini di Piergiorgio Welby, di Eluana Englaro e di Maria, che rifiutò di farsi amputare la gamba in cancrena e preferì morire. Recepisce i piccoli cambiamenti avvenuti  nel mondo della chiesa cattolica con Papa Giovanni Paolo II e il Cardinale Carlo Maria Martini dopo il rifiuto di celebrare il funerale di Piergiorgio Welby in chiesa, nonostante fosse un cattolico, e la critica del bioeticista americano, Daniel Callahan, che mette in evidenza la contraddizione della Chiesa sul fatto che, anziché privilegiare la spiritualità dell’essere e la salute dell’anima, si sofferma sulla natura dell’uomo e della sua sopravvivenza.

Molti cattolici contestarono fuori dalla chiesa la decisione di dare l’ultimo saluto a Welby, affermando che era “una vergogna” di fronte al cerimoniale riservato ai mafiosi, fino al punto che oggi molti cattolici accettano di far protrarre la vita quanto più è possibile, specie in virtù delle scoperte mediche.

Ci introduce al concetto di testamento biologico parlandoci anche dell’eutanasia, praticata dagli italiani sotto forma di turismo della morte nelle strutture Svizzere e cita quella di Lucio Magri, fondatore de il manifesto, che decise di togliersi la vita dopo la perdita della moglie. Insiste in modo convincente a riflettere sul quesito della vita, «chi sono io, cosa significa morire», facendo emergere il profondo significato etico del morire per sé e per gli altri, fino alla donazione del corpo post mortem, per il trapianto di organi, e alla nascita di gruppi di assistenza per i dolenti, tenendo conto che Freud interpretava il lutto come una malattia della mente, perché riattiva una posizione psicotica infantile che porta a non sapere più rispondere alla domanda “chi sono”.

L’autrice aggiunge la sua esperienza personale, di arricchimento per chi legge, affermando che quando ci si pone la domanda “chi sono” scricchiola la risposta, la si sente sulla pelle sotto forma di insicurezza, di ansia avverti che al tuo “io” manca qualcosa e scopri che esso non è individuale, come si era creduto, non appartiene solo a te, non è un qualcosa di separato dagli altri, ma è il tuo “io” che vive anche negli altri, così come nel nascere anche nel morire.

Parla dell’uso della menzogna rivolta ai bambini per nascondere loro la morte di una persona cara, generando, quando scoprono la verità, sofferenza e mancanza di equilibrio, ma soprattutto affiora la gravità del comportamento, del nascondere loro che la vita è un ciclo destinato ad avere una conclusione. Confronta questo contegno con quello dei buddhisti, i quali  insegnano ai bambini attraverso le quattro nobili verità, nate dalla rivelazione dell’incontro di Buddha con un vecchio decrepito, con un moribondo, con un morto e con un asceta. Il tutto consiste nella saggezza di non opporsi alla legge eterna del cambiamento, ma lasciare scorrere la vita. Prosegue descrivendo l’uso dei forni crematoi e, in India, la pratica familiare della cremazione, parla anche delle antiche sepolture nelle fosse comuni delle chiese e quando, nell’Ottocento, su volere di Napoleone, furono fatti costruire dei giardini cimiteriali a duecento metri dall’abitato, con delle fosse individuali e, in seguito, con delle cappelle familiari, in quanto egli non tollerava, sulla scia degli antichi romani, che una buona madre o un buon soldato potesse finire nella fossa comune con dei delinquenti o dei vagabondi. L’autrice passa da un minuzioso racconto delle morti avvenute nel Seicento, dovute ad epidemie, a quelle della prima e seconda guerra mondiale, quando i  morti ebbero sepoltura nei luoghi in cui perirono. Prosegue con l’ultima trasformazione dovuta al boom economico e al cambiamento di riti e tradizioni, che hanno reso i cimiteri napoleonici irriconoscibili. Se è vero che la morte rappresenta un certo livellamento, come sostiene Antonio De Curtis, in arte Totò, nella sua A livella, il concetto napoleonico manifestato nella poesia dal marchese, signore di Rovigo e di Belluno, viene messo in dubbio e fortemente contestato dal netturbino:

‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo, trasenno stu canciello ha fatt’o punto c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme: tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?

Le nuove generazioni, anche se preferiscono la pratica della cremazione, costruiscono i cimiteri sul web, indicando il luogo dove realmente si trova la tomba, questi siti virtuali permettono di lasciare messaggi on line che consentono di ricordare il defunto. L’autrice immagina, invece, un cimitero giardino reale e non virtuale, con diffusione musicale, pur non rinnegando la pratica crematoria che, istituita da anticlericali, è in forte espansione e non è più vista come una pratica antireligiosa o anticattolica, tanto che in alcune città del Nord e del Centro supera il 60% di coloro che la praticano e il 15% come media nazionale. Marina Sozi spazia in modo magistrale nella descrizione delle problematiche che allungano la vita, non nascondendo che il prezzo da pagare, al momento, sia molto alto, per il generarsi delle diverse demenze, dall’alzheimer a quella vascolare, che colpiscono l’anziano. Ella considera questa opera come il proprio testamento biologico, tratto dalla sofferenza personalmente patita e maturata in modo consapevole, come studiosa di tanatologia, credendo che la migliore conclusione della vita sia quella di migliorarne la qualità, invecchiando bene per non morire giovani.

La morte non è niente – scrive S. Agostino -, sono passato nella porta accanto, chiamami, parlami, non cambiare tono di voce, pensami, ridi come quando eravamo insieme, il tuo sorriso è la mia pace

Ma l’omaggio che voglio fare a questa donna è la poesia di Cesare Pavese Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, nella quale l’amore e la morte vengono considerati come i benefattori dell’uomo, in quanto lo liberano dal male di vivere, ma divergono, però, nel fatto che la morte porta ad una liberazione eterna, mentre l’amore ad una liberazione momentanea.

 Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita
Marina Sozzi
Chiarelettere, 2014
Pagine 264
Prezzo di copertina € 13,60

Franco Santangelo

Critico e Storico