Pier Franco Brandimarte: vincitore del Premio Calvino 2014

L’Amalassunta è il primo romanzo di Pier Franco Brandimarte, giovane scrittore abruzzese che ha vinto grazie a quest’opera la ventisettesima edizione del Premio Calvino, il più prestigioso riconoscimento italiano agli scrittori esordienti. Il titolo si riferisce a un ciclo di opere del pittore marchigiano Osvaldo Licini (1894-1958) raffiguranti la luna, una luna percepita come presenza metamorfica, come quintessenza della meraviglia e delle sue molteplici sfaccettature, qualcosa di perennemente in bilico tra l’onirico e l’ancestrale, il rassicurante e l’enigmatico, inafferrabile chimerico rovello di un artista che, dopo esperienze di profondo valore umano e artistico – la vita nella Bologna dell’Accademia degli anni Dieci, la Grande guerra che lo offese a una gamba, la Parigi di Modì e delle avanguardie, il riconoscimento alla Biennale di Venezia nel 1958, l’amore per la moglie svedese Nanny Hellströmm – fece ritorno al paese natale in cerca della luna e del suo archetipico mistero. E proprio Montevidone, paesino marchigiano in cui il nonno del giovane protagonista Antonio possedeva una barberia, diventa fulcro di una ricerca esistenziale su più livelli, quello del narratore, che lascia Torino e la fidanzata Nina in cerca delle tracce del pittore, sulla scia di un’intangibile ma potentissima fascinazione che lo porterà a indagare sulla propria essenza individuale, quello di Licini, fatto rivivere tramite i segni cercati, le testimonianze raccolte, le coincidenze, i luoghi condivisi, e quello dello stesso scrittore, impegnato, tramite un virtuosistico controllo della forma e una prosa che sa muoversi con sapienza tra i differenti registri ora del saggio, ora della narrativa, ora dell’improvvisa apertura al lirico, nell’ardua impresa di catturare un’immagine del tempo e della giovinezza, cogliere e sciogliere in espressione una sensazione fugace, rendere tangibile quel che non si può afferrare.

Un libro denso di suggestioni, che procede a onde, depistante nella sua frammentarietà, profondamente musicale, in cui la precisione nitida sino al malinconico di certe descrizioni si dissolve nel gioco di echi che la frattura temporale, il continuo sbalzo dal presente al passato intessono, portandolo avanti lungo tutta l’opera. «Me lo immaginavo come un nero, disponibile a essere riempito a discrezione, come succede agli spazi che sfuggono alla vista», dice Nina a pagina 110: invece è colorato, a tinte astratte o schiette secondo il momento, secondo che ci si stia interrogando sulla transitorietà del proprio nome e cognome o sull’improvviso stupore provocato dall’esplosione cromatica di un’Amalassunta. Ecco le domande che abbiamo rivolto all’autore…

L’Amalassunta, “testo in elegante equilibrio tra finzione e saggio”, è un libro estremamente anticonvenzionale, che per la propria ricercatezza formale potrebbe apparire una scelta poco ovvia quale esordio: può parlarci di come è nata l’idea che ha dato vita a quest’opera?
E di fatti non è una scelta, è capitato, e poi, anche se si potrebbe mettersi a pensare a che tipo di libro scrivere qualcosa dovrebbe intervenire a traviare i progetti iniziali, lasciare che le cose rimangano nell’ombra per il progettista stesso – non raccomando il metodo per l’ingegneristica dove le vie di fuga, le tagliafuoco, i disimpegni e le clausole sarebbe meglio rispettassero le consegne iniziali. Comunque: mi trovavo a perdermi in macchina un’estate di tre/quattro anni fa e feci sosta in un piccolo paesino dove mi vennero incontro due anziani abitanti. Vidi delle opere d’arte in una piccola stanza, mi raccontarono chi le aveva fatte, che quello lì era un tipo un po’ matto venuto da Parigi nel ’26 con appresso una moglie svedese artista anche lei. Insomma: ne venni via con una fantasticazione crescente, nei mesi ho cercato di rendere certe emozioni di secondi. Questo polo magnetico (quell’artista, la sua opera, la sua vita: parlo di Osvaldo Licini) ha captato molto altro, una forma, un qualcosa di misterioso che scrivendo – come spazzolando – si rivelava. Esordio o non esordio, questo è stato e questo è: un libro che ho cercato di scrivere bene.

Come descriverebbe, in breve, la storia raccontata nel suo libro a qualcuno che non ne sapesse nulla?
Inizia con le parole “Ecco, lo vedo”  e finisce con “e mi crede”.

L’approccio alla scrittura è per ciascuno diverso: quali sono, secondo lei, le corde profonde che un autore dovrebbe portare sulla pagina, quali le modalità per instaurare un dialogo con la comunità dei lettori?
Se mi sta chiedendo che cosa si dovrebbe scrivere, la risposta può essere breve come chilometrica. Quella breve è: quello che mi piace. Quella chilometrica è: l’elenco ragionato delle componenti umane.

Cosa ha rappresentato per lei vincere il Calvino 2014?
Un grande riconoscimento. La possibilità di pubblicare bene. Il fatto di poter dire di essere uno scrittore e vivere bene. Il fatto di associarsi il nome di uno scrittore letto ed amato.

Licini e Antonio, Nanny e Nina, e naturalmente, poco sotto la superficie della finzione letteraria, lo scrittore Brandimarte: è lecito leggere nel suo romanzo-saggio la presenza di una sorta di “romanzo di formazione” che coinvolga a più livelli le ricerche parallele del pittore e del protagonista?
Vista in questo modo qualsiasi storia può essere una storia di formazione, nel senso che si parte da una condizione e se ne arriva a un’altra con l’acquisizione di un di più che prima non c’era. Il classico romanzo di formazione riguarda il frangente della vita che porta il piccolo a diventare adulto, il passaggio, l’attraversamento di una linea che impartisce determinate lezioni sulla vita, cose che poi formano il carattere. La formazione di un carattere è il tema del classico romanzo di formazione. In questo libro il percorso di formazione passa dal recupero di certi stati di incantamento, di certe sensazioni, è un viaggio con un inizio e una fine, abbiamo smarrimento e tentativo di ritrovare una strada. È certo che il pittore nasce e muore senza appello. Cosa si forma dunque, cosa progredisce? Progredisce forse la consapevolezza di una dissipazione, il rendersi corpi cavi. Assistiamo alla formazione di un foro, si passa da una pagnotta a una ciambella, col buco quindi.

La figura di Osvaldo Licini, affascinante sebbene poco conosciuta da parte dei più, acquista grazie a L’Amalassunta un grande riscatto. Può parlarci di cosa rappresenta per lei l’opera di questo artista?
Licini è diventato per me un emblema, un esempio, una figura guida che può o meno essere esistita ma che è un segno di qualcosa come a loro volta erano i suoi quadri. Mi piace quel suo concetto artistico, quell’ardimento, l’essere una sintesi tra grave e lieve, grandi polmoni per trasvolare, eremitismo, segreto, c’era in soluzione tutto quanto mi diceva qualcosa, mi attraeva. Come i suoi angeli ribelli stava ritto su un orizzonte dando l’ultimo sguardo prima di scavallare, e se lo seguissi? se lo seguissi, ho pensato. Licini ha i suoi appassionati e già in vita ha avuto il suo riscatto, non ci sarebbe bisogno d’altro, se qualcuno in più arriverà a Licini tramite questo libro sarebbe un onore per me, e nel caso ci trovasse qualcosa di bello, un bene per il lettore scopritore; Licini sta molto bene di per sé, e questo libro non vuole essere espressamente un’opera di divulgazione liciniana. Certo secondo me e secondo moltissimi andrebbe valutato molto di più, ma poi si finisce sempre a fare i supporter, a dover maledire i popoli perché cadono nell’oblio, a chiedere ristampe di un autore che leggono in 15 perché è il sale della terra e gli editori non capiscono una fava. Se vi piace andate a Milano, a Torino, ad Ascoli Piceno a vedere Licini, andate a Monte Vidon Corrado, fate come volete.

Le letture che più hanno influenzato la sua formazione?
Ai voglia a formarsi. Farei prima a dire degli incontri, di quelle persone crocevia che ti indirizzano, ti consigliano letture che poi si diramano. Herman Hesse alle medie, Jhon Fante poco dopo, Delillo, Baudelaire ancora prima, Ariosto, Omero, e sì,  Poe e Lovecraft da ragazzino – mi ricordo ancora quando ci tiravamo dietro gli aggettivi roboanti di Lovecraft per fare gli eruditi bambini, sembrava di maneggiarli come scimitarre sopra le teste! ma non so, dire così mi pare fare elenchi di medaglie, mi pare di attaccarmi i nomi addosso senza merito, sono quelli insomma, i classici, più qualche libro casuale, un libro di favole crude crude scritte da una sconosciuta di cui non ricordo il nome. E poi le immagini! E i fumetti!

Quanto ritiene che conti nell’atto puro della scrittura la spinta comunicativa intesa come volontà di affermare e/o condividere un messaggio, una sensazione, un determinato valore?
Questa mi sembra un po’ complicata, non so se ho capito, provo. L’atto di condivisione viene dopo la scrittura, mentre scrivi condividi, corrispondi col tuo riflesso, è la discrepanza corpo/mente, vedersi le mani, cose alienanti. Valori e messaggi mi sembrano attinenti al partito, agli uffici stampa, ai giornali, assemblee, alla vita da regolare, alla società, poi scrivere si può scrivere qualsiasi cosa, dipende a che serve questa cosa, la cosa migliore che concepisco da scrivere è una cosa che affabula (nel regno dell’affabulazione per interesse) verso nessuna risoluzione concreta utile a qualsivoglia bilancio, è un andare togliendosi cappi non aggiungendone. Ma ci devo pensare bene, questa è una domanda per scrittori di lungo corso, se va bene ce la rifacciamo tra un po’, che dice?

L’opera prima ha conquistato la critica: può dirci qualcosa intorno a futuri progetti, un’ipotetica nuova prova?
Davvero ha conquistato la critica? È una buona notizia! La nuova prova è veramente ipotetica per ora, di progetti ce ne sono, ce ne sono sempre ma poi chissà, vediamo che succede.

Teodora Dominici

Articolista, collaboratrice editoriale free-lance e scrittrice in pectore