Le backroads percorse da Guido Mattioni

Torna Guido Mattioni nelle librerie con il suo ultimo lavoro, Conoscevo un angelo, pubblicato per Ink edizioni. Un testo dalla maturità letteraria, lontano dai canoni commerciali dell’ultima moda, un testo che si distingue per la scrittura e la narrazione, un testo che ci ha permesso di crescere insieme e di percorrere una nuova strada per riaprirci la mente spesso chiusa dalle troppe cose da fare, un testo che ci ha fornito una nuova possibilità: scoprire diversi orizzonti e sperare in una seconda possibilità. Guido Mattioni lo abbiamo incontrato, e ci ha chiarito in che modo è possibile conoscere quanto il destino incide nel nostro itinerario interiore che ogni giorno cerchiamo di intraprendere.

Il primo romanzo era molto intimo e romantico, quasi autobiografico; il secondo più “giornalistico”; il terzo completamente diverso, anche se un po’ ricorda ancora le “Maree”. Da dove ha tratto spunto?
Più che di uno spunto, posso dire che dentro questo terzo romanzo ci siano i miei 34 anni di viaggi negli Usa; sia quelli fatti per motivi professionali, da giornalista, sia per la mia inguaribile “malattia” di viaggiare. Ero capace di tornare a casa da una trasferta di lavoro e ripartire per gusto mio soltanto qualche giorno dopo. In questo romanzo ho “distillato” uno sconfinato serbatoio di ricordi: migliaia di volti, di luoghi, di situazioni. Io ho una pessima memoria per nomi e date, ma le persone incontrate le ricordo tutte; e l’America che si muove lungo le backroads, le strade secondarie, è quella autentica, sorridente e al tempo stesso anche dura, ma che a me piace in quanto priva di lustrini. Intendo quell’America che la parte buona del cinema a stelle e strisce – da Altman a Redford – ha saputo magistralmente raccontare. Per non parlare di quanta di quell’America ci sia nella grande letteratura.

Eudora, una donna semplice, dedita alla famiglia, “buon dono” al cambiamento di vita del protagonista del libro; come mai ha scelto questo nome e quanto ha di autobiografico?
Di autobiografico nulla, se non l’omaggio a una grandissima scrittrice del secolo scorso che amo molto, Eudora Welty, da noi semisconosciuta anche se ebbe un premio Pulitzer. Se me lo lascia dire, noi italiani come gusti letterari siamo abbastanza scontati e prevedibili. Oppure seguiamo passivamente le mode: c’è stato il periodo sudamericano, poi quello giapponese, e adesso fa tanto “fico” leggere gli scandinavi anche se magari non ci piacciono. E dire che ci sarebbero perle letterarie da scoprire in ogni Paese. Restando in America, per esempio, la mia adorata Flannery O’Connor, regina indiscussa del genere racconto, che non riesco a immaginare cosa avrebbe potuto scrivere se non fosse morta a soli 39 anni. Ma anche perle al 100% italiane, eppure dimenticate, come Comisso o Arpino, Piovene o Parise. Tornando a quel nome, Eudora, voglio aggiungere che per me le parole, e quindi anche i nomi, hanno una loro musicalità: ed Eudora è uno di quei nomi. Uno di quelli che, almeno per me, “suonano”. Di più, raccontano.

L’angelo del libro compare in poche semplici righe, eppure fa da filo conduttore lungo l’intero romanzo: quanti angeli ha incontrato nella sua vita? Ci parla di qualcuno?
Io non sono un uomo di fede in senso tradizionale, non sono insomma uno di Chiesa, ma penso di aver imparato a riconoscere il “tocco” speciale di Dio sia nei miracoli quotidiani di Madre Natura – dai tramonti alle maree – sia nel mio prossimo. Basta volerli cercare, basta saperci guardare attorno e gli angeli li riconosciamo. Non hanno le ali, come quelli di Giotto, e possono essere uomini o donne, ma hanno qualcosa di inconfondibile e riconoscibilissimo nello sguardo: una luce speciale. Se ne ho incontrati? Certo, e non solo in America. Ricordo un vecchietto che vidi uscire anni fa da un cimitero di campagna, in un paesino della Basilicata. Lui era stato a portare i fiori sulla tomba della moglie, mentre a me si era fermata l’automobile. Si offrì di accompagnarmi a piedi fino in paese. Io ero lì per un’inchiesta e iniziammo a parlare: in dieci minuti compresi tutto di quel luogo, dalla sua storia alla mentalità della gente. Lo ricordo come fosse ora: avrà avuto novant’anni, ma gli occhi erano quelli di un bambino. Sorridevano.

Quanto vorrebbe assomigliare a Howard Johnson, il protagonista del suo romanzo?
In un certo senso gli assomiglio già, almeno in due cose: nell’amore totale e totalizzante per la libertà e nel piacere che provo ad “andare”. Andare dovunque, intendo, senza necessariamente sapere dove, perché il bello sta proprio in quello, compresa la meraviglia insita nello sbagliare strada. Che è un’arte, si badi bene, non un difetto. Non a caso detesto i navigatori satellitari, perché seguendo la loro voce metallica e saccentina non avrei mai ricevuto i doni regalatimi da tante strade imboccate per errore. E poi se sbagli strada puoi sempre chiedere, incontrando altre persone, forse perfino un altro esemplare di angelo. Howard questa cosa la apprezza molto e la apprezzo anch’io.

Nei suoi viaggi americani ha percorso anche quella “strada”?
Intende la vecchia Number One, quella di cui parlo molto e che diventa il panorama quotidiano di Howard costretto in carrozzella? Certo, ne ho fatti lunghi tratti, in diversi viaggi. Forse, sommando i vari spezzoni l’ho percorsa davvero tutta: dal Maine, lassù al Nord, al confine con il Canada, fino all’isoletta meridionale di Key West, nell’azzurro tropicale del Golfo del Messico. È davvero grande l’America, ed è bellissima!

Da buona italiana, gelosa della mia terra, le chiedo: come mai tutta questa dedizione all’America, e non invece alla sua patria di origine (Friuli) o città d’adozione (Milano)?
Più che dedizione direi che è amore, e in quanto tale non si può spiegare, altrimenti non sarebbe più amore. Vale anche tra gli umani, in fondo. Io non saprei dire perché amo mia moglie: so di amarla e non me ne chiedo il perché, dato che la magia è tutta lì, nell’irrazionalità di un sentimento. Non vorremo mica trasformarlo in un algoritmo o in un altro orrore matematico? Venendo alla sua domanda posso dire di essere legato a tanti altri posti, in Italia e nel resto del mondo. Amo la mia patria, pur senza aver mai sofferto di nazionalismo – brutta e pericolosa malattia che produce odio e guerre – avendo la fortuna di sentirmi a casa dovunque. Perché la “casa” non la fanno i luoghi, il clima, il cibo o le diverse religioni: la fanno gli altri, il prossimo che hai la fortuna di incontrare. Ma le posso anticipare che il prossimo romanzo, il quarto, avrà come scenario una terra che amo almeno quanto l’America: la Sicilia, che come disse qualcuno non è un’isola, non è nemmeno una regione italiana, ma è “un Continente” a sé. Ma non mi chieda perché la amo.

 

Maria Ausilia Gulino

Teacher – Journalist