Il demonio di Sant’Andrea – Gaetano Allegra

Il Demonio di Sant’Andrea, Edizione d’Este, è la prima opera di Gaetano Allegra.  Sebbene essa sia romanzata, il lettore commetterebbe un errore culturale se non attribuisse all’autore il merito di avere creato dei personaggi verosimili, vissuti in un contesto storico reale, di avere messo in luce la storia dei vinti, da nessuno mai  raccontata perché, sin dalla presenza dell’uomo sulla terra, la storia è stata scritta sempre dai vincitori. Rita Borsellino nella sua Prefazione ci indica una storia, quella dell’Unità d’Italia, a volte poco vera, perché racchiusa in un semplice passaggio di potere dai Borboni ai Savoia, che dilatano la loro potenza annullando tutti i piccoli stati dello stivale italico e lasciando invariate le conflittualità fra Nord e Sud, fino a rimanere come una palla al piede dell’Italia odierna, facendosi beffa della storia ufficiale. Vi è anche una Postfazione di Eugenio Bennato, il quale si chiede se l’Italia unita poteva essere fatta per via diplomatica, speranza sicuramente candidata allo sconforto se si pensa che il più valido diplomatico dell’epoca, Camillo Benso Conte di Cavour, morì proprio con la nascita dell’Unità d’Italia, morte che lasciò una scia concreta di dubbi per molti anni, in quanto sono stati in pochi a credere alla sua morte naturale.

Il racconto storico di Gaetano Allegra richiama l’attenzione del lettore su personaggi che la storia ufficiale ha voluto ignorare, come quella del brigantaggio, che non si trova nei libri di scuola ma che egli scopre avvalendosi di una seria ricerca documentale. Il personaggio principale, Salvatore, detto Totore, nasce a Sant’Andrea, da Pasquale Iodice e da Maria. Egli, oltre ad ereditare il senso di giustizia, coltiva la passione per il sapere, consapevole che in mancanza di esso si ha sottomissione e povertà.  L’autore, nel raccontare questa storia, crea uno stile neorealista, fatto di espressioni dialettali che, in modo amabile, creano ritmi espressivi interessanti all’interno del testo, ora col dialetto lucano, poi con quello campano, pugliese, calabrese o con quello colorito del prete siciliano, Don Cuono Patania.

Qualunque sia l’espressione dialettale, il problema meridionale ha sempre lo stesso scenario, si fonda sul tradimento e sull’inganno, sulla promessa non mantenuta della concessione dei terreni ai contadini, ceduti invece ai nobili locali, ai latifondisti e alla borghesia, ormai asserviti ai Savoia e al generalissimo Cialdini, la mano militare mandata a presidiare il territorio. Della ferocia di Cialdini la storia ci ricorda l’Aspromonte, quando egli tentò di fare ammazzare Garibaldi, il quale, però, fu salvato dal senso patriottico dei soldati della guardia nazionale. L’autodidatta Totore divora, in tempo record, tutti i libri del prete don Cuono Patania, per farne buon uso non solo contro il capitano borbonico, Gissi, ma anche contro il generale Cialdini dei Savoia.  

La penna di Gaetano Allegra si fa apprezzare quando ci presenta i costumi, le facezie, i sentimenti e l’onestà di un mondo contadino che, annegando nell’analfabetismo, vuole riscattarsi  e cerca con dignità la propria autonomia dai Borboni e dopo dai Savoiardi, pur consapevole delle poche probabilità di riuscita, in quanto il loro status naviga col brigantaggio.  

«Beh, ovviamente prima dovrai imparare come si legge. Sennò ti metterai a scrivere cose e poi riguardandole dirai: Maro’, ch’ cazz’ agg’ scritt’?»

L’azione di Totore e dei personaggi del racconto si svolge in Lucania, vicino al Monte Volture, antico vulcano spento, al confine tra la Lucania e la Puglia, il quale assicura ancora un vino ricercato, l’aglianico, oli di qualità, acqua fresca, limpida e un’aria pura, perché circondato da una fitta foresta. Esso è il luogo di rifugio incontrastato di Carmine Donatelli, famigerato brigante, detto il Crocco che, insieme a Totore, detto il Demonio di Sant’Andrea, rappresentano i personaggi chiave del romanzo. Totore, soggetto ricco di pathos, riesce a fare costruire ai suoi uomini una città di legno, Sparta Lucana, che dopo ingegnosamente trasforma in una città bunker, impenetrabile, invincibile, al punto che l’assenza di questo avvenimento dalla storia vera del meridione sembra avere derubato dal suo significato politico-sociale un momento di gestione urbis, ideale e alternativo a quello borbonico e a quello savoiardo. È una storia che trascina il lettore, coinvolto dalla limpidezza dell’idealità dei personaggi minori, gli eterni vinti, in quanto l’autore ce li presenta sinceri, alla maniera della “storia vera” del greco Luciano di Samosata, che egli spalma nel testo con l’intento di essere coerente all’ambiente culturale di avanguardia dell’epoca, configurato nella scuola di Basilio Puoti, ove si costruiva la manipolazione della menzogna e della verità, con il migliore allievo risorgimentista, Luigi Settembrini, il quale invitava all’imitazione degli eroi, dell’antico e del reale, che forse è il motivo ispiratore di ogni azioni del soggetto principale, Totore, acclamato come una leggenda vivente.

La storia di Totore è una storia di angherie e di violenza, ogni violenza è seguita dalla vendetta, la violenza più tragica inizia con l’assassinio del padre e vendicata con l’uccisione di cinque guardie borboniche, la derisione del capitano Gissi che, attraverso un’azione indotta, viene fucilato dai suoi stessi soldati. Si hanno continue rappresaglie contro i Soldati di Cialdini che attaccano, Sparta Lucana, il paese fatto costruire da Totore dopo essersi separato da Crocco e anche il tradimento dei cortigiani papalini, che avvelenano tutto il gruppo che si era recato a Roma per chiedere l’aiuto del Papa. Totore scampa alla morte grazie al fratello Gerardo, ma alla fine un tradimento sarà peggiore del veleno, infatti muore per il mancato arrivo degli uomini di Crocco sul campo di battaglia, tradimento ignorato da Crocco, escogitato, invece, dal suo luogotenente per rompere quel prima fiducioso che riduceva la sua influenza e creare un dopo a lui più favorevole. Totore muore da eroe, ciò che non voleva essere, in quanto ormai era una leggenda vivente, ma in quell’istante conclude un processo di apprendimento della sua realtà, che fa crescere la propria consapevolezza al prezzo della vita e nel suo ultimo respiro, sicuramente, ne trae un beneficio interiore..  

Questa storia, che si muove dentro una triade, fatta da Borboni, Savoiardi e Banditi, mette in evidenza come i primi due rappresentino il filone del potere, mentre il terzo rappresenta il filone degli oppressi. Sebbene questa classe di contadini, artigiani e nullatenenti si fosse data al brigantaggio, la storia di Totore non può essere considerata come la storia di colui che grida solo vendetta e fà saccheggio, come una storia insulsa di tante storie di briganti, vere o inventate, ma è la storia di colui che non usa la vendetta, scaturita da soprusi e inganni per difendersi, ma come arma della cultura, con l’obiettivo di togliere ai dominatori (Borboni e Savoiardi) le chiavi della sua liberta; quindi non può essere liquidato come bandito, chiamato ”il demonio di Sant’Andrea”, ma essere individuato come colui che ha avuto il coraggio di lasciare Sparta Lucana per rimettere la sua azione di conquista nella storia del Sud.  

«Lo so, lo so, la virtù risiede nella giustezza, eppure…», risponde Totore, mentre di rimando don Cuono Patania dice:
«No! Non mi mettere in bocca parole che non ho detto. La virtù non c’entra niente con la verità. Servono coraggio e forza d’animo anche per mentire, e spesso è la verità a essere la salvezza del vile, checché ne dicano tutti. Io ho solamente affermato, e ne sono fermamente convinto, che mentre la verità conclude tutto e subito, la bugia ti porta a dover percorrere strade tortuose per mantenerla credibile, costringendoti a una fatica che io, personalmente, da tempo ritengo non valga la pena di accollarsi».

L’autore, indirettamente, citando i fatti di Bronte, di Regalbuto, di Centuripe e di altri centri siciliani, relativi alla ferocia di Bixio e assimilabili a quella del generale Cialdini, stanziato a Napoli, il quale definisce assurde le promesse di Garibaldi ai contadini, mette anche in evidenza  la latitanza del potere e la mortificazione dei bisogni della gente, e come dice Leonardo Sciascia, contestando il verismo,

le ragioni dell’arte…abbiano coinciso con le ragioni di una mistificazione risorgimentale cui il Verga, monarchico e crispino, si sentiva tenuto.

Gaetano Allegra oggi spazza via la mistificazione del “verismo” di Verga e mette in evidenza un “nuovo realismo”, il quale non solo non nasconde la logica coerenza di un personaggio che, avendo combattuto i Borboni  avrebbe trovato sotto la bandiera dei Savoia il quieto vivere per sé e per i suoi adepti, ma evidenzia anche come la sincerità della sua azione gli abbia regalato, invece, la morte,  perorando una causa ideale non meno valida di quella risorgimentale.

Tuttə e paìse d’a Vasilicatə
se so’ scetatə e vonnə luttà,
pure ‘a Calabbria mo s’è arrevutatə;
e štu nemichə ‘o facimmə tremmà,
e štu nemichə ‘o facimmə tremmà.

Tutti i paesi della Basilicata
si sono svegliati e vogliono lottare,
pure la Calabria si è rivoltata;
e questo nemico facciamo tremare,
e questo nemico facciamo tremare.

[Dalla  Postfazione di Eugenio  Bennato                                                                                                                                                                                           Brigante se more (E.Bennato – C.d’Angiò)]

 

Il demonio di Sant’Andrea
Gaetano Allegra
Edizioni dEste, giugno 2015
Pagine 352
Prezzo di copertina € 15,00

Franco Santangelo

Critico e Storico