Eleonora Sottili: “tre personaggi in cerca d’amore”

Conversare con uno scrittore dopo averne letto il libro è un qualcosa di estremamente vitale, soprattutto se il libro in questione, Se tu fossi neve, è uno strano coacervo di invenzioni surreali, realistiche descrizioni e sequenza narrative che sembrano partorite da un cervello matematico più che da una persona di carne e di sangue. La matematica l’ho vista nello scorrere armonico delle psicologie, nell’assurda logica degli spostamenti emotivi, nel senso di ordine emanante dalla lettura. La persona in carne e ossa, invece, che è Eleonora Sottili, ci ha trasmesso simpatia: e queste sono le domande che le abbiamo rivolto a proposito del suo bel libro, della scrittura, dei suoi progetti.

Se tu fossi neve (Giunti 2015) è il suo secondo romanzo: può parlarci di come è avvenuto il salto dalla forma più contenuta del racconto a un respiro narrativo più ampio?
Quando ho cominciato a scrivere, come credo capiti a tutti all’inizio, mi sono misurata con dei racconti. Il mio sogno però era scrivere un romanzo, perché mi sentivo più vicina al ritmo dilatato che ti permette la forma narrativa lunga. Scrivere racconti davvero belli non è affatto più facile che scrivere un romanzo. Penso a quelli di Hemingway, di Cheever, di Tobias Wolff, ma anche di Calvino, Buzzati o Fenoglio: hanno una tensione fortissima, niente è superfluo e, proprio per la loro brevità, non permettono nessun tipo di errore. Il romanzo ha altre regole, altre difficoltà, ma personalmente mi ci trovo più a mio agio.

“Tre personaggi in cerca d’amore”, è stato detto di Jason, Alice e Zadie, protagonisti del libro: cosa le ha dato lo spunto per creare tre personalità così particolari?
Jason Polan è un artista, ho trovato la sua storia su un giornale. Mi piace il suo progetto di disegnare tutte le persone  di New York, è smisurato e in un certo senso inutile. È soltanto bello, e questo soprattutto mi ha colpito. In effetti non è così diverso dal tentativo – che racconto in un altro punto del romanzo – di Wilson Bentley, un tizio che nel 1920 con una macchina fotografica montata su un microscopio riuscì a scattare le immagini di 5.381 fiocchi di neve. Fotografare la neve, disegnare tutte le persone di New York, sono modi speciali di guardare il mondo, di cercare di capirlo.

Zadie e Alice, invece, sono due personaggi inventati. Con Zadie mi interessava raccontare il coraggio, la resistenza alla tristezza e alla solitudine. Zadie è una bambina molto sola, e il sogno di andare un giorno al Polo Sud è il suo modo di dare un senso a questa solitudine: immagina di essere sola come lo sono stati i primi esploratori dell’Antartide e prova a trovare dentro di sé la loro stessa forza.  

Alice è una ragazza confusa, che ha quasi paura di tutto. Nel suo viaggio a New York si trova ad affrontare una serie di sfide che la faranno crescere. In un certo senso è il personaggio che cambia maggiormente, è davvero come se Alice dovesse andare sulla Luna e ritorno per scoprire quanto sia speciale la Terra.
Ovviamente, in un modo o nell’altro, in tutti e tre c’è qualcosa che mi appartiene profondamente, ci sono diversi elementi autobiografici poi reinventati, mescolati.

Quanto c’è di lei nella costante attrazione che a loro modo tutti i personaggi esplicitano nei confronti dell’esplorazione, dello spazio, della sopravvivenza, delle scoperte pionieristiche?
Mi sono appassionata ai racconti degli esploratori, ai loro diari e ai viaggi spaziali proprio mentre scrivevo questo romanzo. La curiosità di questi viaggiatori, il loro continuo mettersi alla prova, senza essere sicuri neppure di arrivare a destinazione, sono tratti che ammiro molto. Credo che certe biografie possano davvero servirti per non mollare nei momenti un po’ duri. Quella di Shackleton è di sicuro così: quando la sua nave è affondata, stritolata dai ghiacci, lui è non ha mai mollato e alla fine è riuscito a salvare tutti gli uomini del proprio equipaggio.
Per un’impresa del genere ci vuole davvero un’insaziabile desiderio di vivere, come direbbe Zadie.

Ci è parso di notare alcuni punti di contatto tra atmosfere e tendenze del suo romanzo d’esordio (Il futuro è nella plastica, Nottetempo 2010) e il libro di cui discorriamo, come ad esempio la fotografia che qui è invece disegno, la costruzione di un percorso attraverso oggetti sottratti che qui invece sono appuntamenti dati: Jason potrebbe rappresentare un’evoluzione di Arturo?
È vero, quando scrivo ho delle ossessioni: alcune durano il tempo del romanzo, altre invece sono più radicate, come alcuni tratti di Arturo che adesso sono diventati di Jason. L’idea di collegare i punti di una città, di creare su una mappa percorsi diversi, che producano nuove possibilità di incontro per le persone, è una cosa che mi diverte e mi interessa. Probabilmente continuo a scriverne perché non ho ancora scoperto la ragione di questa mania.
Il disegno e la fotografia diventano per i miei personaggi dei metodi per affrontare il mondo che li circonda in modo più obliquo, trasversale. Fotografano e disegnano perché così si sentono protetti. Di solito sono personaggi che hanno qualche problema con la realtà, non sono attrezzati, e allora escogitano qualche trucco per avere un po’ meno paura e riuscire a raggiungere ciò che desiderano, che di solito è una qualche forma di amore.  

Come descriverebbe in breve il suo stile?
Credo di avere una scrittura molto visiva. Quando scrivo mi immagino sempre le scene, e faccio attenzione ai particolari. È una scrittura fatta di cose piccole, di movimenti impercettibili. Anche quando parlo di una tempesta, finisce che mi concentro sulla caduta dell’ultimo fiocco di neve.    

La scelta di ambientare la storia a New York è di sicuro molto di impatto: cosa rappresenta questa città nel suo immaginario? Ha mai pensato di ambientare un romanzo in Toscana?
Sapevo che New York poteva essere un’ambientazione affascinante, ma anche pericolosa. Proprio perché ci sono già moltissime storie che raccontano questa città, il rischio di appoggiarsi su un immaginario collettivo è forte. Però per me era necessario, per via di Jason, di Charlie Todd e soprattutto della Tempesta. Mi interessava proprio un’ambientazione urbana che, spazzata dalla neve e dal vento, diventa improvvisamente caotica e selvaggia come le terre artiche.
Per quanto riguarda la Toscana, mi piacerebbe raccontarla. La mia non è quella delle colline, dei cascinali e dei borghi medioevali. Carrara ha un paesaggio più complicato, è stretta tra il mare e le cave di marmo, bianche e ripide, ed è questo che vorrei raccontare.  Penso ci proverò nel prossimo romanzo.

Nonostante sia per certi versi complicato riuscire a trovare una voce propria e riconoscibile con la quale dare vita alle proprie storie, Se tu fossi neve è un tutto coeso ed estremamente autonomo, quasi si raccontasse da sé: quale consiglio darebbe, da autrice, a uno scrittore esordiente?
Di leggere. Leggere tutto, romanzi, giornali, quotidiani, blog. Di guardare film, andare a teatro. Ascoltare le voci degli altri ti aiuta a scoprire la tua. E poi a uno scrittore esordiente consiglierei di fare attenzione quando cammina per strada. Sembra una cosa banale, ma credo che si riesca a trovare la propria voce quando si trova il proprio sguardo, un modo speciale, personale di osservare le cose.  

Progetti per il futuro?
Vorrei scrivere un nuovo romanzo. Ho qualche idea, ma per ora è ancora tutto indefinito.
E poi mi piacerebbe imparare a camminare sul filo come Philippe Petit. Oddio, non così in alto: mi basterebbe fare qualche passo su una corda tesa anche a pochi centimetri da terra. Questo più che un progetto è un sogno. O semplicemente una nuova fissazione.

Teodora Dominici

Articolista, collaboratrice editoriale free-lance e scrittrice in pectore