Il soccombente – Thomas Bernhard

Il soccombente è già stato messo al mondo come soccombente, è stato da sempre il soccombente.

Parola di Glenn Gould, uno dei più grandi virtuosi del pianoforte di ogni tempo. Uomo umbratile, poco avvezzo ai clamori da platea ma musicista rigorosamente disciplinato, decide di sparire dalla scena teatrale nel 1964 per dedicarsi esclusivamente alle registrazioni in studio, per il resto della sua carriera pianistica.
Lo odiava davvero il pubblico. Era il tipico uomo americano-canadese spietato e aperto, il solo che avesse avuto il coraggio di guardare negli occhi due uomini – tra i migliori musicisti austriaci – Wertheimer e la voce narrante (alter ego dello stesso autore) e riconoscerli per il loro naturale talento: soccombere e filosofeggiare.

Siamo negli anni ‘50 del ‘900 presso il Mozarteum di Salisburgo, il conservatorio in cui si tiene un corso di alto perfezionamento pianistico con Vladimir Horowitz. Si incontrano Wertheimer, il narratore e Glenn Gould. D’ora in poi, per tutti e tre, niente sarà più come prima perché se i primi due sono solo pianisti brillanti, i migliori che l’Europa potesse offrire, il terzo è il genio. È Glenn Gould, il cui “radicalismo pianistico”, come lo definiva Wertheimer, lo ha posto davanti a un’insuperabile impasse: il desiderio di trasformarsi nello Steinway, di abolire qualunque intermediario umano tra Bach e il pianoforte.
È chiaro che Glenn suoni anche meglio di Horowitz. E cosa accade quando la vita offre la prova tangibile del genio, dell’eccelso? Si soccombe.

Wertheimer, un emulatore nato, un invidioso fisiologico, un debole aggressivo, colpito a morte dal genio di Gould, si addentra nella scienza dello spirito, per suicidarsi dopo poco. Il narratore resiste stoicamente al suo processo di intristimento. L’uno mette all’asta il suo Bosendorfer, l’altro, per evitare che il suo Steinway continui a tormentarlo lo regala ad una “promettente” pianista che in breve tempo lo distrugge, generando in lui un piacere perverso, prova di un’ottusa opera di auto-distruzione. Ciò che resta della consapevolezza di non riuscire ad essere è una verità aberrante come dirà, proprio, la voce narrante:

Esistere, in sostanza, non significa nient’altro che questo: essere disperati. Pensare che per cinquant’anni non abbiamo nessun altro desiderio se non quello di essere morti, eppure seguitiamo a vivere e non possiamo farci niente perché siamo incoerenti da cima a fondo. Perché siamo la meschinità in sé. Non abbiamo talento musicale! Non abbiamo talento esistenziale!

Con uno stile asfissiante, assillante, claustrofobico, senza interruzioni, come di chi sta per vomitare il peso della sua anima prima di spirare, il narratore ci trascina nelle memorie di quell’esperienza, lontana ventotto anni ma così reale e radicata da ridurre quel lunghissimo lasso di tempo nel pensiero disastroso del discernimento di un incubo che ha come nome Glenn Gould, trasformandosi in un secondo Wertheimer, morto, come lui, nel preciso istante in cui il genio tocca i tasti del pianoforte e dà prova del suo “invasamento per l’arte”. Ma lo stesso genio, morirà con il sogno irrisolto: colto da ictus suonando le Variazioni Goldberg a cinquant’anni, per “morte naturale”. Anche lui, a suo modo, è un soccombente.

Il romanzo comincia dalla fine, dalla morte di Wertheimer e dall’interminabile riflessione a posteriori dell’io narrante che dispone se stesso e i suoi due amici su una sorta di tavolo anatomico per osservare i caratteri (e le falle) di questi tre esseri umani. Gould è per l’appunto il genio, l’uomo che ha definitivamente trasformato l’interpretazione di Bach: “invasato dalla sua arte” e che vive recluso dal mondo in una casa immersa nel bosco suonando per dodici ore al giorno. Quando si attacca al pianoforte si raggriccia tutto e sembra uno storpio, mentre in realtà è un uomo “bello” e “signorile”. La sua parola prediletta è autodisciplina; con sé stesso è “l’uomo più spietato che si possa immaginare”.

Quel Thomas Bernhard, restìo a svelarsi in quelle terribili pagine, per anni ha vagheggiato di scrivere un saggio su Glenn Gould senza esser venuto mai a capo di nulla. Ma mentre ha esplicitato a chiare lettere questo ulteriore fallimento, ha di fatto composto la straordinaria e agghiacciante partitura musicale di questa storia, facendo della propria vita un’opera d’arte. E soprattutto, ha portato ad apoteosi la sua particolarissima dote di strumentista della lingua.

 

Il soccombente
Thomas Bernhard
Adelphi, 1999
Pagine 186
Prezzo di copertina € 10,00

Imma Paone

Studentessa Universitaria