Trattato sui vini ‒ Arnaldo da Villanova

L’inizio del libro Trattato Sui Vini, titolo originario Liber de Vinis, di Arnaldo de Villanova, tradotto da Manlio della Serra, Editrice Armillaria, mette in evidenza un non ipotetico ma reale palcoscenico della vita nel Medioevo. In questo scenario gli attori principali sono la malattia e l’ammalato, la regia è svolta dalla medicina che, credendo di essere al servizio dell’ammalato, spesso viene mortificata perché impotente a impedire il trionfo della malattia sulla salute, specie nel primo apparire della peste nera che annulla qualsiasi incremento demografico. Passerà molto tempo prima che la medicina possa essere realmente al servizio dell’ammalato. Il ruolo di quest’ultimo, al servizio della medicina, si capovolge con il disfarsi di imbroglioni e ciarlatani che nell’antichità abusavano dell’arte medica. Sono Ippocrate e Galeno i primi ad inaugurare i loro esperimenti applicando la teoria degli umori. Non a caso Galeno, abbinando il secco all’umido fa giungere, sulla nostra tavola, dopo migliaia di anni, pietanze che ancora oggi apprezziamo, come l’abbinamento del formaggio alle pere e il prosciutto crudo al melone, consigliati a scopo terapeutico, mentre Ippocrate afferma che l’unica bevanda migliore dell’acqua è il vino. La salute interessa ogni essere vivente e i saperi incominciano a diversificarsi, ognuno vuole dare il proprio contributo alla causa di una vita sana, cercando le più disparate soluzioni per neutralizzare ogni patologia. Si apre così un varco verso l’Alchimia, portata avanti dagli Arabi, che affianca i procedimenti della medicina naturale a quelli della trasformazione dei metalli e della distillazione di sostanze vegetali, facendo del vino il centro della nuova farmacopea. Il titolo del libro, pur rimanendo un elemento esterno al testo, riesce a comunicare una specie di riassunto della trama, mentre la lettura delle prime pagine fanno scattare nel lettore un meccanismo complesso di attese, specie sul vino e sul suo ruolo nella medicina antica e non solo. Fare un cenno storico sulla vite, sull’uva e sul vino mi sembra importante in quanto l’origine della pianta trova testimonianze in reperti risalenti ad oltre 9000 anni a.C.. La Bibbia, nel libro della Genesi, ci riferisce che Noè, attraccato a terra, dopo il diluvio universale, piantò una vite e si ubriacò del suo vino, Omero parla delle furberie di Ulisse per avere ubriacato Polifemo, Dionisio, dio greco del vino, fu venerato con feste, danze e tanto vino da mandare i partecipanti in estasi, i Greci portarono la vite in Italia e la produzione giunge a tanta abbondanza che quasi tutta la nostra penisola viene chiamata Enotria, il dio romano del vino è Bacco, diverso da Dionisio, perché inneggiato dal popolo volgare, la plebe. Già nel 2000 a.C. in Sicilia e in Calabria si produceva vino e a Sibari fu costruito un enodotto di terracotta che trasportava il vino dal luogo di produzione ai porti di attracco delle navi. Dopo la dominazione romana la produzione di vino ha un rallentamento, ma la vite e il vino vengono curati dai monaci Benedettini nei conventi fino a diventare un simbolo religioso nella liturgia cristiana, dove il vino si trasforma nel sangue di Cristo. La vite, l’uva e il vino, insieme al frumento erano le piante e gli alimenti più diffusi, soprattutto fra la plebe, che utilizzava il vino anche come antisettico per le ferite, contro la febbre e per rendere potabile l’acqua. La traduzione del libro rende onore non solo al grande medico e alchimista catalano vissuto nel XIII sec., ma rende omaggio al vino come medicina e come bevanda in tutte le sue varietà, ormai simbolo della nostra solare e bella Italia. Arnaldo de Villanova, medico di Papi e di Sovrani, visse un rapporto intenso con la nostra Sicilia, ebbe benevola ospitalità dai siciliani, le sue idee di riforma religiosa, sociale e politica vennero accolte alla corte di Federico III di Aragona, re di Sicilia, del quale fu consigliere ed amico e per conto del quale svolse numerose missioni, in una delle quali perse la vita. Le sue spoglie sono custodite all’interno della cappella Palatina del Castello del Borgo di Montalbano Elicona (Messina), residenza estiva di Federico III d’Aragona. Egli in questo trattato parla della vite, dell’uva, del mosto e del vino, dell’arte di conservazione e del modo di preparazione delle botti per accogliere e preservare le proprietà del vino che, unite alle sostanze aggiunte durante l’ebollizione del mosto, ne diventano parte integrante e passano nel corpo di chi ne fa uso. Il vino chiarifica il sangue, funge da vasodilatatore, libera il fegato, allontana la tristezza, rende l’anima gioiosa, fa diminuire il dolore e la fatica e predispone lo spirito alla ricerca della verità, da qui il proverbio latino «in vino veritas». I medici attribuirono al vino la proprietà di trasformare il sapore delle medicine con il gusto del cibo, i giovani, gli anziani, le donne e i bambini ne traevano grande giovamento, attribuirono anche al modo di preparare i vini, sia rosso che bianco, grande importanza perché il loro utilizzo era la migliore medicina usata nel medioevo. Arnaldo indica tre tecniche per la preparazione dei  vini.

Molte le composizioni dei vini medicali, dal vino mirabile al cordiale, dal vino di blugossa al vino passo, dal vino naturale a quello di cotogno, dal vino al rosmarino al vino contro l’itterizia, da quello barbarico a quello lassativo, da quello d’oro a quello rasposo e moltissimi altri dove vengono incorporati quasi tutti i frutti, gli ortaggi e le erbe consumate dall’uomo, pronti per curare ogni malanno.
Il trattato sul vino è seguito dal dispetto di Michele Trionfera con La vigna di laccetto che, in modo brillante, conclude l’opera. La storia di Laccetto, contadino buono e laborioso, è commovente: è la difesa ad oltranza della vigna dai dispetti della natura, dell’uomo e dall’incalzare del cemento. Il suo amore verso la terra madre subisce un richiamo ancestrale, come a riportarlo nel grembo dove ebbe vita, quasi a cadere nel fondo di un bicchiere di vino, con il tintinnio del cristallo, generato dallo schiaffeggio del nettare dell’uva rossa e degli aromi che vi sono incorporati.

La situazione si era aggravata con i lavori del comune. Sopraelevate, rotatorie, svincoli e gallerie avevano circondato il suo piccolo appezzamento, dando vita a un’ossessiva architettura che ricalcava le confuse circonvoluzioni cerebrali racchiuse nella sua testa. Sprofondato ai piedi di questa stupefacente cattedrale suburbana, Laccetto aveva instaurato con la vigna un rapporto che replicava l’amore filiale al quale era stato strappato. Nelle linee delle foglie, nelle curve degli acini d’uva e nelle geometrie dei tronchi ritrovava sorprendenti corrispondenze con il corpo della madre, e ciò lo spingeva a prendersene cura simulando gli atti che avevano dato senso alla sua vita.

La storia del vino è sempre incompleta, sia perché ogni anno c’è il vino novello sia per il fatto che ogni individuo dà sempre una versione diversa della sua bontà, comunque tutti i vini sono buoni perché «sperdono i vecchi pensieri che consumano» e «dispongono l’anima all’amore e la rendono pronta alla passione». Arnaldo de Villanova tra alchimia e amalgama di saperi ha contribuito a rendere la storia e la cultura del vino più ricca e più interessante per l’uomo, tanto che anche nell’era moderna da questi saperi nasce la vinoterapia.

 

Trattato sui vini
Arnaldo da Villanova
a cura di Manlio della Serra
Armillaria, ottobre 2015
Pagine 156
Prezzo di copertina € 12,00

Franco Santangelo

Critico e Storico

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