La Sardegna raccontata da Cristian Mannu, vincitore del Premio Calvino

Leggere un libro è un po’ come stare seduti a teatro: si libera la mente, si entra nell’atmosfera, con la parte razionale e la parte emotiva del nostro sistema percettivo entrambe predisposte a fruire delle invenzioni, dei messaggi e dei significati che qualcun altro ha elaborato. Conversare con chi il libro l’ha scritto, allora, è come entrare nel backstage: una rara occasione di arricchimento, di confronto, di scoperta, che può aiutare a comprendere e ad ampliare un’opera travalicando i limiti oggettivi della parola definitiva su carta, allo stesso modo di una sorta di paratesto immaginario. Soprattutto se l’autore in questione possiede la garbata finezza di Cristian Mannu.

Come è nata in te l’idea di questo libro? La scelta narratologica di far risultare la storia da un coro di voci monologanti è venuta in un secondo tempo o era già parte integrante e “strutturale” dell’opera?
L’opera è nata così. Senza struttura. Mi piace definirla un’opera jazz. Dove è l’improvvisazione, la contaminazione a prevalere. Ci sono voci “alte” e voci “basse”. C’è la lirica e il pop. Ci sono poeti e cantautori. Ogni personaggio parla con la sua lingua, si scava l’anima, tira fuori parole, suoni, immagini. Sono dieci monologhi, dieci canzoni. E insieme, tutte insieme, fanno un coro jazz.

In Maria di Ìsili (Giunti 2016) tutto ruota attorno a Maria, un’adolescente – e poi donna – che per certi versi potremmo definire fuori dal tempo, universale nel sentimento e nelle esperienze: ma la vera protagonista è la Sardegna. Che immagine pensi di avere dato della tua terra?
Non so quale immagine sia riuscito a restituire. So solo che amo profondamente la mia terra. Una terra a volte dura ma incredibilmente generosa. Una terra troppo spesso offesa, violentata. Una terra di sole, di mani, di arte, di cultura, che potrebbe essere il centro nuovo di un nuovo Mediterraneo dei popoli, se solo si fermasse ad ascoltare le sue voci, se solo si fidasse di più di se stessa e non finisse sempre a seguire gli altri per paura di non farcela da sola. Una lettrice mi ha detto che nel personaggio di Maria lei ha visto la Sardegna, la sua storia. Una storia fatta di talenti infiniti ma sprecati. Forse il finale dell’opera vuole essere proprio un auspicio a cambiare questa storia, partendo dagli errori del passato e dalle cose che abbiamo sempre avuto e che ancora fortunatamente abbiamo: la terra, l’arte, la cultura.  

Hanno detto della tua scrittura che talvolta sfugge alla sistemazione delle parole propria della prosa, per farsi più simile a una sorta di poesia, nel ritmo, nelle assonanze, nei richiami: è una modalità per te spontanea o l’hai scelta per esprimere al meglio precisamente questa storia?
È una “modalità spontanea”, se così vogliamo chiamarla. È il modo in cui mi escono fuori i pensieri, è la mia lingua madre. Le parole prendono da sole quei posti all’interno della frase. E le frasi, con piccole variazioni, a volte si ripetono, anche a distanza.   

Maria, Michele, Teresina, Antonio, Borìca e tanti altri, sino a completare il numero delle dieci voci – e non tutte appartenenti a vivi – che raccontano la vicenda: chi sono i tuoi personaggi?
Sono donne e uomini. Semplici esseri umani. Come me. Con tutte le loro debolezze e le loro fragilità. Vivono o hanno già vissuto. Raccontano di una donna, o almeno dovrebbero. Ma alla fine ognuno finisce per raccontare se stesso, per svelare le parti più oscure di quello che è o è stato.  

Ci è parso di notare in questo libro forte la contrapposizione tra città e campagna: puoi esprimere il tuo pensiero in proposito?
Non è una contrapposizione voluta, ma rileggendo il libro mi accorgo che c’è ed è forte. Credo sia una conseguenza della mia vita. Ho vissuto i primi sette anni in un piccolissimo paesino dell’Ogliastra, Perdasdefogu, il paese del vento e dei nonni che campano sino a cent’anni, il paese dove anche le pietre sono lingue di fuoco e parlano e raccontano. Le campagne di Perdas mi sono rimaste dentro, anche quando, ancora bambino, sono stato scaraventato nella periferia di Cagliari, nel quartiere di San Michele, dove, oltre all’asfalto della strada e alle case popolari dove ho vissuto per più di trent’anni, c’è solo solitudine e vuoto.

Quali sono gli  autori che sono stati o sono importanti per la tua esperienza letteraria e per il tuo approccio alla scrittura? Che genere di libri leggi volentieri?
Sono un lettore onnivoro, discontinuo ma onnivoro. Procedo per ondate, senza percorsi prestabiliti o generi precisi. Amo le poesie, questo sì: Wisława Szymborska, Montale, Ungaretti, Sereni. Le leggo da amatore, però, da dilettante, come tutto quello che leggo. Recentemente sono stato folgorato, per motivi diversi, da tre autrici che scrivono in lingua inglese: Edna O’Brien, Elizabeth Strouth e Alice Munro. Ma anche Philph Roth e Paul Auster hanno contribuito non poco, così come Il Giovane Holden di J.D. Salinger. La mia adolescenza, invece, l’ho passata leggendo Stefano Benni e Daniel Pennac, insieme ai classici latini e greci: Omero, Orazio, Apuleio. Ho un debole, poi, per gli autori esordienti, mi piace gustarmi le pagine che non sanno di vernice, toccare la superficie nodosa e non piallata dei testi. Ho sempre seguito i libri usciti dal Premio Calvino, quelli noti e quelli meno noti. Ci sono pagine di Letteratura vera, secondo me, in Partigiano Inverno di Giacomo Verri, ne Le sorelle soffici di Pierpaolo Vettori o nei Cacciatori di frodo di Alessandro Cinquegrani, solo per citarne alcuni. E poi i miei conterranei: i sardi. Quelli morti e quelli vivi. Sergio Atzeni, soprattutto, ma anche Salvatore Satta e Grazia Deledda. Autrici a volte agli antipodi, come Milena Agus e Michela Murgia, ma che adoro in eguale misura. La profonda leggerezza di Francesco Abate o la profondità leggera di Flavio Soriga, sino a quello che, secondo me, attualmente è il più grande scrittore sardo vivente: Marcello Fois.

Cosa ha rappresentato per te vincere il Premio Calvino?
È stata una sorpresa, una cosa che ancora fatico a credere sia avvenuta davvero. Come quando il Cagliari ha vinto l’unico scudetto della sua storia, come Gigi Riva che è rimasto in Sardegna nonostante tutto. Una cosa assurda, insomma. Io, un papà, uno che non ha mai scritto nulla, che non ha fatto nessuna scuola di scrittura creativa, che la vita ha voluto facessi tutt’altro, io, proprio io, tra tanti più bravi di me, ho vinto il Premio Calvino. Davvero?

 Nonostante la presenza e il peso nella storia di alcune figure maschili, Maria di Ìsili è sin dal titolo un libro fortemente incentrato sulla figura femminile, ma una figura femminile particolare, legata al sentimento come parte preponderante della vita, e per questo esposta a sofferenze che non sembrano riguardare più di tanto il maschio, come l’abbandono, il crollo della reputazione, la solitudine, l’infelicità nella vita coniugale: pensi che nella contemporaneità la completa realizzazione della donna trovi la sua pienezza nel sentimento?
Credo che il futuro del mondo sia donna. Ci credo fortemente. Credo che le mie figlie vivranno in un mondo migliore di quello in cui ho vissuto io, un mondo in cui finalmente saranno le donne a guidare gli uomini e non viceversa. Ci sono voluti millenni. Ma sta arrivando, piano piano, il giorno in cui non sarà più la forza fisica a prevalere sul resto. L’uomo ha sempre avuto paura della donna, credo. Forse perché nasconde dentro di sé il segreto di far nascere altre vite. Non riesco davvero a spiegarmi diversamente perché per secoli e secoli la donna sia stata emarginata, relegata a ruoli secondari, e perché tuttora nel nostro paese sia così difficile per le donne emergere.

La critica ha accolto molto favorevolmente il tuo esordio: stai già pensando di scrivere un secondo libro? Se sì, quanto diverso?
Non ho altri progetti al momento. Vorrei che Maria di Ìsili fosse un’opera “verticale”, che avesse una vita lunga più di qualche mese o di una sola lettura. Vorrei che fosse il mio primo, ma anche il mio secondo libro, e che quindi venisse letto almeno due volte. Non so se ce ne sarà un altro. Mi piacerebbe scrivere fiabe per bambini o canzoni, però, perché amo la densità delle parole, il loro suono, la brevità.

 

Teodora Dominici

Articolista, collaboratrice editoriale free-lance e scrittrice in pectore