Addio – Angelo Ferracuti

Il libro di Angelo Ferracuti, Addio, edito da Chiarelettere,  inizia con la descrizione del bacino carbonifero del Sulces-Inglesiente, destinato alla chiusura entro il 2018, allo stesso modo di come furono chiuse le miniere di zolfo in Sicilia in seguito al prevalere di nuovi metodi di estrazione e a nuove tecnologie più vantaggiose, che diedero fonti alternative di energia. L’abile ed esperiente penna dell’autore ci descrive un ambiente spettrale del bacino carbonifero, fatto di macchinari ormai in disuso, in un’area un tempo movimentata dalla presenza di volti sudati, colorati di nero carbone, che evidenziavano solo gli occhi e la bocca perché il movimento disperdeva quel colore triste. Erano i minatori che entravano e uscivano dalle viscere della terra, con gli occhi dilatati alla ricerca urgente di luce solare, con la bocca e le narici assetate d’aria e di ossigeno puro, descritti quasi come formiche giganti, tutti in fila, con la “cicca” in bocca e l’elmetto in testa e, come le formiche, qualcuno ci rimetteva le penne sottoterra, in quanto veniva divorato da quel buco nero, pieno d’insidie. Ferracuti dalle miniere si sposta verso il centro abitato, Carbonia, si sorprende nel vedere una povertà nascosta dalla dignità degli abitanti, percepiti come anime morte perché senza futuro, situazione che dilaga e si estende in tutto il Sulcis-Inglesiente. Scruta nel passato di una città giovane, fatta costruire da Mussolini nel 1938, dove le casette degli operai stigmatizzano una B, l’iniziale di Benito, al centro vi è il Municipio con la piazza Roma, la Torre Littoria, la chiesa, le strade larghe e le case fatte rispettando un sistema di gerarchia strettamente fascista, con al centro i dirigenti, poi gli impiegati e in periferia gli operai, una città in agonia in attesa della chiusura definitiva delle miniere. E’ Graziella, la proprietaria di un albergo, a confermare la povertà degli abitanti e la solidarietà dei lavoratori con dignitosa riservatezza e abituale ricorrenza dovuta al manifestarsi delle crisi cicliche del lavoro. L’autore, nel racconto, non si limita alla descrizione storica del paese ma coinvolge scrittori e giornalisti di chiara fama, quasi a voler aggiungere una conformità al suo pensiero, aperto e attento verso una classe lavoratrice, creata quasi appositamente da Mussolini, del quale non nutre simpatia alcuna. Inizia con la scoperta di Alberto La Marmora, nel 1834, del bacino carbonifero, passando da Iglesias, Gonnesa e Terra Segada, fino a giungere a Bacu Abis dove trova un frammento di arenaria bigia che incastonava una sostanza nera carboniosa. E’ così che nel 1885 nasce la prima miniera, in mezzo ad una povertà diffusa, trafitta da epidemie, brigantaggio e analfabetismo e ancora martoriata da una legge di Vittorio Emanuele II che prevede il disboscamento delle terre, inducendo i contadini a ribellarsi sotto la guida di Paskedda Zau e a lavorare alternativamente nell’agricoltura e nelle miniere, dove oltre al carbone si estraeva anche zinco e piombo. Angelo Ferracuti si accorge che, in fondo, i minatori del Sulcis non sono diversi dai minatori belgi, francesi o inglesi, sono tutti poveri, con lo stesso modo di vivere e le stesse sembianze, hanno tutti case piccole, dove dormono ammassati a bocca aperta perché stremati dalla stanchezza, con un salario da fame, uguale in tutta Europa. Cominciano le proteste e gli arresti, nascono le prime organizzazioni sindacali, si ottiene il riposo domenicale, agli inizi del ‘900 si fanno sentire i socialisti, ma dopo la prima guerra mondiale è Mussolini che viene alla ribalta con la scritta sui muri:

Coloro che io preferisco sono quelli che lavorano duro, secco, in obbedienza e, possibilmente, in silenzio.

Quando l’autore fa parlare Marco il racconto si snoda fra episodi di rivolta, miseria, sudore e sangue, la vera tragedia viene dal “Grisou”, la maledizione dei minatori in tutto il mondo, infatti numerosi furono i morti nelle miniere di Ribolta, Courrieres,  Monongah  e Marcinelle… E’ la grande crisi nelle miniere, si fanno sentire duro i comunisti, ma ormai il destino delle miniere del Sulcis è segnato. L’autore dopo aver lasciato Marco, il narratore della povertà del Sulcis, inizia una specie di tour culturale insieme a Franco, sindacalista in pensione, scrittore, che mostra la fine ingrata dei luoghi che ospitavano i minatori e spiega il lavoro a punti che dovevano svolgere e senza il raggiungimento dei quali si veniva licenziati in tronco. Racconta di paesi di diecimila abitanti, ora completamente abbandonati, dove si registra la presenza soltanto di cinque o sei persone e, nel villaggio di Ingurtosu, addirittura una, Claudio Melis, quasi a essere il custode del villaggio. Franco si cimenta nel racconto esistenziale dei minatori di questi villaggi, sottolinea la fratellanza che li univa e i sacrifici che li rendevano inseparabili e solidali. L’autore scopre Manlio Massole, autore di Racconti del sottosuolo, il quale parla delle sofferenze corporali dei minatori dentro le viscere della terra come la passione di Cristo, anche se non è in sintonia con questo filone culturale e religioso. A coloro che sostengono che in miniera son morti in tanti risponde che non è vero:

Non siamo riusciti a cambiare la società, quella era la società che volevamo, che siamo riusciti a creare, per cui in miniera non sono morti i minatori, la società, tutti noi li abbiamo uccisi.

Ciò equivale alla trasformazione di tutti i minatori in un corpo mistico, “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”, “Questo è il calice del mio sangue”. Intimamente voleva essere questo il pensiero di Manlio Massole, il Maestro minatore che rivela i misteri delle viscere della terra madre ed è anche l’ultimo minatore a parlare delle innovazioni tecnologiche nell’estrazione del carbone, della protettrice Santa Barbara, di come veniva vissuta, di generazione in generazione, la vita del minatore: «Il nonno di mia madre era minatore, è morto in miniera a Bacu Abis all’età di quarantatré anni, il padre di mio padre era minatore, il nonno di mia moglie era minatore, il padre di mia moglie era minatore, mio padre era minatore, e io sono minatore» ed anche se in pensione sono ancora minatore». L’autore ci parla anche della riconversione industriale dopo l’azzeramento delle miniere di carbone, al fine di ridurre al minimo la dipendenza dell’Italia dai prodotti d’importazione. Nasce così il Ministero delle Partecipazioni Statali, viene ristrutturata l’Eni e l’Iri, nasce l’Enel, la Finmeccanica, La Cassa per il Mezzogiorno ed altri enti pubblici a partecipazione statale o ad intero capitale statale e si avvia la programmazione economica per giungere alla pianificazione settoriale dell’economia. Anche sul territorio del Sulcis viene programmato un nuovo sviluppo industriale, prevedendo un’occupazione stabile della manodopera, specie quella disoccupata, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, la riduzione delle sperequazioni fra Nord e Sud e la diminuzione delle forze lavoro dell’agricoltura attraverso un travaso a favore dell’industria e dei servizi. L’autore esce dall’ambiente minerario e approda in un territorio lavorativo dove non c’è più aria morta ma un incremento preoccupante di scorie prodotte dalle attività industriali. Riesce abilmente a descrivere i personaggi, prima dal volto uguale, nero come il carbone, adesso con il colore dei capelli, degli occhi e delle sembianze del viso. Parla anche della ragazza Elisabetta,  ricercatrice che aveva brevettato un procedimento di purificazione del carbone, dell’utilizzo delle scorie di zolfo e anche della sua paura quando assieme a dei minatori e a dei giornalisti di Rai3 andò in miniera a mezzo Km sottoterra. Dopo un po’ inizia la crisi industriale e le multinazionali, come l’Alcoa che produceva alluminio, l’EurAllumina, la Portovesme srl e la centrale dell’EnelL, chiudono. Seguono le proteste, la crisi è terribile, in loco non ci sono alternative, l’Autore scava nei sentimenti del popolo disoccupato e riesce a cogliere posizioni che si ritrovano in un tutt’uno politico, maledettamente uguale, cassaintegrazione, mobilità e dopo? Bisogna  ricominciare tutto da capo, Angelo Ferracuti non ferma il suo racconto, va oltre, descrive la povertà facendo i conti  in tasca ai disoccupati, vuole sapere come sopravviverà questa gente, entra financo nelle parrocchie, nella Caritas, si accorge che oltre alla povertà aumentano le malattie, la situazione è di emergenza, aumenta il consumo di alcolici, droghe e, forse, anche i dissidi coniugali. La solidarietà si svuoterebbe di significato se non ci fossero gli anziani con le loro pensioni. I Vescovi, in occasione della visita di Papa Francesco, scrivono:

…un invito al realismo, cioè guardiamo le cose così come sono, non come vorremmo che fossero.

Aumentano i furti, specie quelli alimentari nei supermarket, la gente non viene scoperta come prima, adesso di nascosto mangia quanto le viene facile arraffare all’interno della rivendita, aumentano le malattie, specie quelle depressive, con la chiusura delle fabbriche chiudono gli istituti di formazione professionale e i negozi, i medici specialisti cambiano zona, perché la gente non ha soldi per pagare le visite, il livello di povertà è mostruoso.

Le proteste durano da anni e a dare solidarietà alla gente che perde il pane, oltre ai colleghi, si uniscono gli artisti del suono, della pittura, della scrittura…gente che rompe il silenzio in quel territorio rimasto senza anime, cantando la fine del lavoro e, come dice Pablo Neruda: «…lo sdegno e il coraggio…Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle». Anche gli ex alcolizzati si danno da fare, aiutano a fare uscire dalla dipendenza dell’alcolismo, raccontando le loro storie. Certamente questa è solidarietà, ma non è sufficiente, dopo l’alcolismo subentrano le malattie da esso causate.  L’autore, girando per Carbonia, amaramente si accorge che il paese è in vendita, dietro ogni porta c’è un cartello con la scritta “Vendesi” o “Affittasi”, la solidarietà della Caritas spesso non si concretizza, i bisognosi ricevono il pacco di pasta ma non hanno l’acqua o il gas per cucinarla, nelle case la fornitura dell’energia elettrica è disattivata perché non vengono pagate le bollette, è questo il malessere invisibile che c’è dentro le case.

Si muovono ambientalisti ed anche giovani di sinistra che non appartengono più a nessuna organizzazione politica, si parla di diossina, di piombo e di cadmio, lasciati dalle industrie chiuse che inquinano, di pecore che non possono pascolare, di vigneti che assorbono piombo e nessuno che porti avanti un programma di bonifica, di classe politica che dorme e di diffusione e aumento di tumori fra la popolazione. L’autore, mentre fa questa brillante radiografia del Sulcis, apprende dell’attentato avvenuto in Francia da parte dell’Isis, a Saint-Denis, fa una riflessione chiedendosi se il terrorismo è l’effetto o la causa di un sistema fortemente conflittuale con la civiltà dell’uomo.  

Adesso i disoccupati non scioperano più per rivendicare il diritto ad un lavoro ma per avere il diritto alla vita, il Sulcis è diventato una camera a gas, i rifiuti tossici ormai sono dappertutto, i morti di tumore sono raddoppiati, tutte le istituzioni sono in allarme. Il libro di Angelo Ferracuti, quindi, è un libro di denuncia, è un libro d’autore responsabile e sensibile, dove si tocca con mano l’ansia, la paura e la tristezza dei minatori e la speranza affidata alle api, come cavie, al fine di salvare la vita degli abitanti del Sulcis. Mentre concludo questa recensione, il giornale più diffuso della Sardegna “L’unione Sarda” scrive: Il Sulcis muore, non si possono mangiare i prodotti dell’agricoltura…e così ognuno pensa all’Addio, non alla sopravvivenza.    

L’autore scopre che l’Alcoa, dopo avere chiuso i battenti nel Sulcis, va in Islanda e, nonostante il parere contrario del 65% della popolazione, vi impianta una mega fonderia  producente 320.000 tonnellate di alluminio l’anno. Ciò aumenta il disastro più di prima, facendolo espandere a macchia d’olio…fino a dire addio ai fiori perché non hanno più profumo, al cielo perché non ha più colore, al sorriso di un bambino perché rimasto orfano, all’amore di una mamma perché rimasta vedova e ad una parola di conforto perché manca ogni speranza. Il capitalismo selvaggio ha perforato la Shoah…l’olocausto ora si estende a tutta l’umanità, quel passato che non è mai finito diventa infinito. L’autore coglie così il vero significato dell’esistenza dell’uomo e le minacce a cui va incontro e più che  le regole della narrativa, nel libro Addio, fa prevale il bisogno urgente di leggere il mondo reale e le problematiche odierne, i quali rappresentano la trama del nuovo realismo emergente che mette radici proprio nella crisi dei grandi ideali e nel fallimento di idee rivoluzionarie.

Addio. Il romanzo della fine del lavoro
Angelo Ferracuti
Chiarelettere, 16 giugno 2016
Pagine 252
Prezzo di copertina € 16,60

Franco Santangelo

Critico e Storico