Lettera a Dina – Grazia Verasani

Con Lettera a Dina (Giunti, 2016) una versatilissima Grazia Verasani proietta sullo sfondo urbano della Bologna a lei cara la storia di un’amicizia atipica, nata per caso e protrattasi nel tempo con un’insistenza che sfida tutti gli ostacoli, compresa la morte. Tutto comincia una mattina del 1973, quando in una normalissima aula di scuola entra per la prima volta la dodicenne Dina, borghese quanto è proletaria la voce narrante: tra le due ragazzine si creerà un rapporto basato sulle spinte altrettanto forti dell’attrazione e della repulsione, capace anche di passare sopra a differenze politico-sociali avvertite con estrema chiarezza già in quella tenera età.

«Nel giugno di quell’anno, alle elezioni, la DC è sempre in testa ma il PCI avanza: io faccio il tifo per Berlinguer e tu per Almirante, allo stesso modo con cui io mi vanto dei vestiti che mi fa mia madre e tu delle tue Lacoste e dei tuoi Levi’s.»

Nonostante le svastiche che Dina disegna sui banchi la simbiosi tra le due si stringe, colorandosi col trascorrere degli anni di elementi di sempre maggiore peso: partite dai compiti a casa dell’una o dell’altra – da Dina, nell’appartamento di lusso dove una madre affascinantissima ma assente le osserva fumando Muratti adagiata su un sofà, oppure dalla narratrice, tra libri, giornali comunisti e gli scampoli di tessuto della mamma sarta – le ragazze si ritrovano senza sapere come in una sorta di circolo dei bisogni, dove la disponibilità reciproca più che un piacere diventa un obbligo, e dove l’amicizia somiglia sempre di più alla dipendenza. Forse perché Dina, sovrappeso e irrequieta, scivola in una spirale autolesionista che parte dal cibo, attraversa i tentati suicidi, e sfocia nella droga. Forse perché la sua amica e voce narrante è irresistibilmente attratta dalla vita di quelli come Dina, e soprattutto da lei, Dina, la bionda travolgente che sembra sempre pronta a creare un problema salvo poi avvolgerla in una rete sottile, fatta di affetto, lamentele, sensi di colpa, promesse di migliorare e un’enorme energia di coinvolgimento.

«Una sera che piove a catinelle, apri la finestra della stanza e allunghi un braccio fuori. Ci accovacciamo sul davanzale a farci inzuppare le camicie da notte: la pioggia calda, le luci accese nelle case di fronte e un cielo così blu da sembrare dipinto con la china. (Siamo felici, Dina? Sì, siamo felici.)»

Le pazzie, i colpi di testa, la confusione, i sogni dell’adolescenza, quel periodo in cui si può litigare a morte per una sciocchezza come un pesce rosso, oppure entusiasmarsi alla follia per una nottata in pigiama sotto un albero di Natale, si mescolano con flash di vacanze al mare da ricconi, Feste dell’Unità, ragazzi condivisi o invidiati all’una o all’altra, hashish fumato in nottate desolanti su panchine di parchi di periferia, e ancora citazioni letterarie, giochi inventati che solo loro due possono capire, e canzoni che segnano a vita, quella ad esempio che con insidiosissima potenza risveglierà tutti questi ricordi, ben trentasette anni dopo, nella voce narrante ormai vicina alla cinquantina.

«Mi appoggiai a una sedia per non cadere a terra e mi venne da ridere. Non riuscivo a liberarmi di quella maledetta canzone: mi colpiva alle spalle come il mortaretto di un bambino dispettoso e mi riportava ai suoni pop di una tastiera degli anni ‘70»

È da lei, da questa donna matura e colta, consapevole e autoironica, che scopriamo a poco a poco sempre più dettagli di un’amicizia che intuiamo profondissima, ma della quale non riusciamo ad afferrare le regole: ed è seguendola nei suoi pensieri, negli stralci della sua vita quotidiana, nelle sue sedute semiserie dallo psicanalista – assoldato tra l’altro per risolvere il Problema Dina – che riusciamo a mettere un po’ di ordine in questo altalenare tra passato e presente, tra realtà e ricordo, che costituisce il vero filo conduttore del romanzo.

La grande capacità di penetrazione della Verasani si produce questa volta in un vero e proprio gioco di prestigio, la costruzione di una storia sempre in bilico, tra il vero e il non vero, tra il vissuto e la ricostruzione, spesso parziale, capricciosa, che ne fa la memoria. Una memoria fortemente influenzabile, che insabbia o recupera momenti a caso, restituendoli attraverso il filtro dell’emotività, quasi a voler rendere noto che tra le due amiche, quella che racconta e quella prematuramente scomparsa, è paradossalmente quella assente a occupare tutta la scena, ingigantita dall’importanza che l’altra le dà, anche dopo aver preso le distanze da lei, anche dopo essere definitivamente fuggita da lei, in quel momento tra i venti e i trent’anni che nel romanzo addensa il contenuto massimo di indeterminazione. Dov’è finita Dina?

«Passando un dito sulla polvere del cruscotto, pensai a quella poetessa, Cristina Campo, che aveva paura delle cose perché durano più delle persone. (Cosa mi restava di te, a parte qualche lettera?)»

In realtà di Dina resta proprio tutto, persino il suo odore «buono, caramelloso, da bambina grassa», persino il suo naso alla francese e le sue insinuazioni su cose fatte con gli infermieri, quando era più spesso in ospedale che fuori. La voce narrante vive di questa sovrapposizione quasi musicale e trae respiro da essa, senza per questo annullarsi. È il risultato in carne e ossa di una dura prova affrontata, una sopravvissuta, perché «se incontri presto sulla tua strada qualcuno che ti chiede tutto, impari che quel tutto non ha regole e non ha rispetto, che quel tutto forse è l’amore, o il tuo modo di amare, e non puoi farci niente».

Lettera a Dina
Grazia Verasani
Giunti, settembre 2016
Pagine 160
Prezzo di copertina € 14,00

 

Teodora Dominici

Articolista, collaboratrice editoriale free-lance e scrittrice in pectore