Golden Years – Ali Eskandarian

Forse si è un po’ abusato negli ultimi tempi di definizioni eccessivamente entusiastiche in copertina, che anche quando si rivelano veritiere danno comunque l’impressione di uno sbilanciamento troppo netto: il rischio si fa ancora più alto quando si nominano predecessori illustri. Nel caso di Golden Years di Ali Eskandarian (Giunti 2017) in copertina vengono citati Kerouac e McInerney, dove si dice “Ammaliante e commovente. Un romanzo beat che richiama a gran voce Sulla strada e Le mille luci di New York“. È impegnativo, e la cosa più bella è che è tutto vero.

Golden Years è un romanzo immediato, elettrizzante, ribelle, che parla di musica e di chi fa la musica, con fulcro a New York ma abitato dalle proiezioni di molti altri Paesi, a cominciare dall’Iran, nazione di origine dell’autore nonché del protagonista. Una storia in gran parte autobiografica e narrata in prima persona è quella di Ali, «immigrato, cresciuto durante la guerra, rock ‘n’ roller, un artista che cerca di sopravvivere in un mondo moderno che trova irritante/esaltante» – secondo le sue stesse parole riportate nella Postfazione –, un eclettico musicista, cantautore e scrittore nato in Florida ma cresciuto a Teheran durante la rivoluzione iraniana.
Questo delle origini è un dato fondativo, di importanza esistenziale prima ancora che culturale: la famiglia di Ali ha attraversato vicissitudini che l’hanno portata a cercare asilo politico in Germania e poi a trasferirsi a Dallas, in Texas. Ali infatti apre il suo romanzo proprio con la scena emblematica di un arrivo in America dall’Iran: «Ricordavo come fosse ieri il trauma del mio arrivo negli Stati Uniti, tanti anni prima. Adesso i nostri nuovi amici erano qui e ci saremmo assicurati che non tornassero in Iran. Questi ragazzi, come altri prima di loro, venendo qui avevano rischiato la vita in nome della loro arte».

L’arte di cui si parla naturalmente è la musica, e non più la dottrina che vede contrapporsi il “Jazz Caldo” al “Jazz Freddo” che ha animato Sulla strada e I Sotterranei di Kerouac, ma quell’inesauribilie repertorio di sperimentazione, energie e divertimento che è il rock, un rock che in questo caso vive e si alimenta di contaminazioni, vista l’internazionalità del gruppo di giovani musicisti che popola gli spazi condivisi del loft a Brooklyn in cui Ali trascorre un periodo della sua vita, tra feste, progetti, sessioni di droghe meditative e concerti da camera a cui è invitato chiunque voglia salire le scale e buttarsi nel mucchio.

«Erano tutti più giovani di me, ma questo non era un problema […]. Mi diedero un divano sul quale dormire. Era piena estate e faceva caldo. Avevo tre magliette, due paia di jeans, tre paia di calzini e i miei fidi stivali di cuoio nero. Ero quasi al verde, e non trovavo lavoro. Ero un uomo felice.»

Scarti temporali bruschi, una sincerità a tratti commovente a tratti livorosa, l’incredibile capacità di comprensione di chi con la vita ci si è sporcato le mani, senza rinunciare a nessuna esperienza, senza considerare estraneo a sé nulla di quello che è umano. La vocazione libertaria nelle descrizioni delle immense arterie autostradali americane, la psichedelia di alcuni spezzoni dedicati ai notturni newyorkesi, “passeggiate” d’autore durante le quali la voce narrante cita a vista ciò che gli attraversa la strada inframmezzandolo a sensazioni, stati mentali, invettive, in una sorta di flusso di coscienza iper-contemporaneo. C’è la riscostruzione lucida e tenera delle proprie storie d’amore, tra appartamenti condivisi e colazioni nelle tavole calde, conversazioni da ubriachi sui sedili posteriori di automobili che sfilano silenziose tra le luci della metropoli. Ci sono folgorazioni solitarie, esaltazioni collettive, ricerche di lavori, scambi di battute folli con vecchi amici, compagne di letto occasionali, personalità dell’ambiente musicale e perfetti sconosciuti. E soprattutto c’è l’anima grande di un uomo che della propria cultura, del proprio sapere, non fa un motivo valido per accantonare l’umiltà ma anzi un grande anelito al superamento dei pregiudizi, alla comunione delle culture e al recupero di tutte le tradizioni.

«Forse erano le droghe, e le visioni. Anni prima mi ero seduto sulla riva di un grande fiume, in preda a un’allucinazione psichedelica. Scorreva copioso, come l’antico Tigri o il Nilo, ma si chiamava Fiume della Creazione Artistica. Capii che non avrei potuto far altro che starmene lì, infilarci un piede, nuotarci dentro, pregarlo, accompagnare la gente sulle sue sponde, senza mai possederlo o reclamarne la proprietà, senza mai arginarlo con una diga, o inquinarlo. Si doveva proteggerlo a ogni costo. Come minimo doveva rimanere un luogo sacro, come il Gange, perché tutti i grandi fiumi hanno un ruolo determinante nell’eterno ciclo della vita. Sono i grandi connettori. Ti trasportano. Sono un simbolo della transitorietà dell’universo, del flusso perpetuo, della libertà definitiva.»

Questo è il classico romanzo del quale si vorrebbero trascrivere una frase su due. Il classico romanzo veloce, spontaneo, nello stesso tempo penetrante, riflessivo, persino grezzo, nel quale la lingua più che descrivere nomina, crea, con quella straordinaria capacità espressiva propria dei narratori americani.
L’altra perla del libro è la lettera autentica, contenuta nella Postfazione, con la quale l’autore, prematuramente scomparso poco più che trentenne, propone il proprio scritto a un amico editore: «La scrittura  ha un sottotesto politico, ribelle, e c’è pure un sacco di sesso, droga e rock ‘n’ roll. […] Mi rendo conto che forse è chiedere molto, ma visto che è la mia prima incursione nel mondo dell’editoria penso di poter essere un po’ imprudente e dare la colpa alla mia inesperienza».

Una delle cose più belle che io abbia letto a proposito del lavoro di editing è contenuta nella nota, dove si dice “il lavoro di editing è un momento di comunione”. Grazie al sentimento di comunione nato nell’editor di questo libro e all’intelligenza delle case editrici che nei vari Paesi hanno scelto di pubblicare Golden Years possiamo leggere la storia di Ali, quella che nella sua mente poteva – e può – diventare il primo “grande romanzo iraniano-americano”.

 

Golden Years
Ali Eskandarian
Giunti, gennaio 2017
Pagine 224
Brossura € 17,00

 

Teodora Dominici

Articolista, collaboratrice editoriale free-lance e scrittrice in pectore