La caduta dei golden – Salman Rushdie

A chi ama un tipo di prosa essenziale, dall’aspetto intimista, il libro di cui vi parlo non può piacere. Perché La caduta dei golden di Salman Rushdie (Mondadori, ottobre 2017) è come una ricca macedonia, in cui l’autore mette di tutto, fino a risultare un presuntuoso sfoggio di cultura.

Salman Rushdie – l’autore dei famigerati Versi satanici, opera per cui dal 2015 vive sotto scorta – non teme che il suo ultimo romanzo venga percepito come un lungo elenco di cose menzionate tutte di seguito, né ritiene di poter annoiare. Eppure, al gruppo di lettura dove abbiamo trattato questo libro, che non si può certo classificare in un genere letterario ben preciso, c’è chi ha giurato di avere costantemente tenuto sottomano Wikipedia, in modo da poter andare a ricercare le miriadi di citazioni, o approfondire gli argomenti. E di citazioni erudite Rushdie ne ha fatte tante, senza lasciarsi scappare alcuna nazionalità, tanto che La caduta dei golden risulta un po’ il libro di tutti. “Apolide” in un mondo dove invece, purtroppo, le distinzioni di razza sono ancora ben presenti.

Come dicevo, parlarvi di questo romanzo non è facile, poiché si presta a molte interpretazioni. L’autore ha provato, a sua detta, a scrivere “il grande romanzo americano”, quello che incarna il “grande sogno”, ora che a New York egli è bene inserito – essendosi trasferito dall’India nel lontano 1999. È la storia dell’America dell’ultimo decennio, dall’investitura di Obama alle premesse di una futura presidenza Trump; profezia nefasta di quanto questa nazione sia cambiata, ma in peggio. Sempre a detta dell’autore, nella scrittura vi è stata un’evoluzione: il passaggio da un realismo “magico” dei primi libri, a un nuovo tipo di realismo, dove la missione è diventata dire solo la verità, in un’epoca che invece strumentalizza e abusa di “fake news”.

In lingua originale il libro s’intitola “The Golden House” e forse così tutto sarebbe stato più chiaro, perché narra, in sintesi, la storia di una famiglia fuggita dall’India e da un passato di cui non vuole assolutamente parlare. Dopo gli attacchi del 2008 a Mumbai – lì muore la prima moglie – il clan si stabilisce a New York in una casa sfarzosa, su una collina del Greenwich Village, dove i riferimenti alla “Domus Aurea” di Nerone abbondano, insieme a quelli cinematografici. Il padre è un personaggio atipico, tozzo e burino, dal curioso nome di Nero. Quale profezia decadente che incombe sull’intera America, il settantenne ha scelto il suo nuovo nome che si rifà a quello di Nerone dell’antica Roma, e “promette” che prima o poi qualcosa prenderà fuoco, deflagrando in un incendio colossale. Con lui, anche i tre figli si rendono complici di questa ostentazione di crisi d’identità, a cavallo fra realtà e finzione. Il narratore è René, un giovane regista belga che aspira a fare un film sulla vita di questi singolari vicini di casa e li spia come una sorta di Grande fratello impiccione. Rushdie, in mezzo a tutto ciò, dilaga con le sue citazioni erudite, che si leggono di seguito anche soltanto per sentirne il suono – impossibile reggere l’attenzione per tutte le quasi cinquecento pagine di testo.

Perché dunque penso che qualcosa di interessante vi sia in questo libro e sono qui a parlarvene? Lo salvo per la sua originalità e per il modo “incurante” che ha l’autore di procedere, certo che il lettore lo segua. Inoltre, perché ho trovato tante similitudini con Il grande Gatsby, romanzo che adoro. Un’epoca fatta di feste e lustrini, ma solo in apparenza, che in realtà cela grandissime tragedie e sofferenze. Un passato dal quale si vuole scappare ad ogni costo, ma che, per quanto si faccia, sempre ritorna.

Che nessuno possa sfuggire al proprio destino, se non sarà il sistema a cambiare, è una sacrosanta verità.

 

La caduta dei golden
Salman Rushdie
Mondadori, ottobre 2017
Pagine: 452
Prezzo: € 23,00

 

Cristina Biolcati

articolista, scrittrice e poetessa