Ogni orizzonte della notte – Maurizio Vicedomini

Ogni orizzonte della notte di Maurizio Vicedomini, laureato in Filologia moderna, Edizioni Augh (2017), è una raccolta di undici racconti, aventi ciascuno, come trama, una tematica diversa l’una dall’altra, ma nella loro intensità corrono sullo stesso filo conduttore, dall’inizio alla fine, facendo prevalere tutto ciò che nel buio della notte potrebbe affiorare nella mente dell’essere umano e il senso di smarrimento in assenza di luce, fino a rendere anonima l’individualità di ognuno ed evidenziare che ogni  tematica può appartenere ad una moltitudine di gente. L’autore, con grande maestria, dunque, disattiva l’individualità del soggetto, pur facendolo parlare in prima persona, senza però l’onore del nome proprio, quasi a far capire che l’io narrante potrebbe essere uno, cento, mille o milioni di persone. Egli ha dato al titolo del libro un significato diverso dall’orizzonte visibile, infatti l’immaginario si affolla nella mente di ogni individuo dal tramonto all’alba, cioè per tutta la notte, quando il sole rimane al di sotto dell’orizzonte e il buio si sostituisce alla luce, annullando tutte le differenze, come ricorda il Nobel della letteratura, Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera.   

Il primo degli undici racconti è titolato Nova, il nome di una stella. Non poteva cominciare diversamente un libro che inizia beatificando l’immaginazione di un ragazzo e che per farla riposare guarda le stelle, ma l’anonimo soggetto ricorda la luce emanata dall’elettrodo di una saldatura, che lo costringeva a chiudere gli occhi o a proteggersi con la mano, fino a divagare sull’intensità di luce che aumenta e diminuisce osservando la stella “nova” e nel contempo ad essere testimone della morte delle stelle cadenti. Nella notte sfumano le emozioni, il pensiero riaffiora ma si sbriciola nel firmamento, nonostante la verde età del ragazzo, convincendo che tutto ha un inizio e una fine, salvo poi a scoprire che esiste un interruttore cosmico che riporterà tutto a nuova vita.

Il secondo racconto è Odissea d’Autunno, dove sono le stelle artificiali a dare un riferimento, collocate sugli alberi, in preparazione dell’imminente arrivo del Natale. La stella cometa che guidò i tre magi a Betlemme adesso serve al personaggio per deviargli il percorso, in quanto posta in un luogo dove mai sarebbe voluto andare, infatti i luoghi da dove passa sono pieni di donne e uomini derelitti, l’erba spesso sporca è piena di siringhe, l’aria puzzolente di urina, mentre una voce femminile lo insegue, è la voce di una giovane che assiste la madre, accovacciata a pochi passi da dove lui sta per transitare. La giovane lo ferma: «Te la fumi una canna? No, preferisco la mia». Prosegue il suo viaggio fermandosi in un bar, all’interno del quale un vecchietto rigurgita ricordi di guerra di fronte ad un bicchiere di alcol. Il barman lo invita ad accompagnarlo a casa, per paura che da solo possa farsi male, ma giunti all’altezza del cimitero il vecchio gli dice:

«Cammini fra le tombe e ti sembra di vedere le ombre di vecchi datori di lavoro, colossi d’azienda, professori di quand’eri bambino. Di notte, là dentro, arrivi a pensare di poterci parlare, con i morti».
«Dev’essere una bella esperienza».
«Bella no, non direi. Ti sembra che la differenza fra te e loro sia così piccola, così insignificante, che basta fare un altro passo per fargli compagnia».

Scatta l’immaginazione e, riattivando la memoria, le parole dell’ubriaco vengono ascoltate, entrambi si siedono sulla banchina del tempo per raccontarsi e ascoltarsi con l’emozione di chi si sente arrivato nella vita e di chi crede, invece, di dover fare ancora tanta strada.
Il terzo racconto è L’uomo al buio, l’autore non cambia il suo clichè, fa una rappresentazione cinica dove mette a confronto l’uomo con la riproduzione di sé stesso, portandolo nel labirinto della mente. È un delirio, l’uomo al buio non parla, sa tutto, pensa, è preparato, ma quando lo cerca non c’è, forse l’ha immaginato, è il paradosso del buio che si rivela con dolore e con inganno.

Niente, non trovo niente. Non c’è altro che si possa fare: non so più neppure dove mi trovo. Comincio anche a dimenticare chi sono. Forse è questo l’incanto del buio: la dimenticanza. Alzo lo sguardo ma non vedo stelle. Mi volto, ma non ci sono luci, non c’è nulla, non c’è più nulla, o forse mai nulla c’è stato e tutto è solo frutto di un ricordo deviato, un’illusione, una visione.

Il racconto successivo ha per titolo un numero, il Nove, un numero sacro, un numero magico che spesso mette alla prova ogni cosa pur di verificare la correttezza del percorso, un numero che si coniuga bene con la solidarietà della famiglia, preoccupata per la crisi economica, mentre è in arrivo un nascituro il padre attiva ogni collaborazione per tenerla compatta e raggiungere l’obiettivo del risparmio. Questa famiglia è una delle tante a dare un bellissimo esempio di compartecipazione alla soluzione dei problemi domestici. Il figlio, a fatica, fa un excursus con Orfeo ed Euridice, fino a giungere alla Vita nova di Dante. È qui che quel nove, scelto dall’autore come titolo, sembra voglia sottrarre il racconto all’analisi della mente:

Sembrava che Dante avesse redatto una lista delle donne più belle di Firenze e avesse piazzato Beatrice al nono posto e non al primo. Ma il perché non l’avevo capito. Stava parlando di trinità, di numero sacro, di amore supremo. «È Dante stesso a dare una corrispondenza fra Beatrice e quel numero. Leggiamo che l’avrebbe incontrata per la prima volta a nove anni, che poi l’avesse rivista nove anni dopo, e che fosse stato salutato da questa nell’ora nona» continuò il professore. «Vedete, per capire Dante, dovete capire i suoi punti fermi».
Anche l’anello che Lele avrebbe dovuto regalare ad Erika, preso a caso nelle bancarelle, aveva incise nove facce di donna, ma fu tanto l’imbarazzo che il pensiero volò lontano dalla Vita nova di Dante.
Ciò che invece fece precipitare tutto fu l’espressione di Stefania: «Sono incinta!» tanto bastò per fare capire meglio al ragazzo l’importanza della messa a punto dei conti da parte del padre e della mamma, per pagare bollette e tasse varie, per tirare avanti la famiglia e dare così un significato alla vita.

I racconti che seguono sono: Ego, Long Island, Mescolato bene, Mangiafuoco, Il rinoceronte, Chiaro di luna, Una storia senza importanza, Compassione. In nessuno dei racconti appare il volto del soggetto, appare soltanto il pensiero, la trama, il problema, la macchinazione, così che l’immaginazione la fa da padrone, al lettore appaiono tanti volti, appare perfino quello dell’autore per nutrire il sospetto che i racconti siano una biografia. In ogni racconto si raccoglie, a sorpresa, una predisposizione d’animo pronta a recepire pensieri ed emozioni che credi, almeno una volta nella vita abbiano richiamato la tua attenzione, come dicevo all’inizio scorrono sullo stesso filo e non a caso. Il tema dei racconti costruiti con molto impegno, in una trama dove il soggetto rimane dall’inizio alla fine nascosto, qualunque sia lo scopo, la pignoleria e la scrupolosità dello stile non vengono meno, anche se nel cambio dei personaggi qualche volta viene sacrificata la chiarezza a salvaguardia dell’impostazione stilistica. Mi sono chiesto perché l’autore abbia voluto fare questa forzatura, cioè condividere un posto nella mente del lettore, costringendolo a cercare nell’intimità della notte l’identità di uno che non si rivela. Perché? Forse perché nella conclusione dolorosa della vita ognuno non vuole essere solo e quindi ha compassione di sé medesimo? Questa lettura riempie di emozioni giungendo immediata la riflessione che l’umanità è accomunata dallo stesso destino, quel destino che tiene sullo stesso filo le diverse motivazioni degli undici racconti. Leggendo, il lettore crede di leggere qualcosa di indefinibile, di più intimo, qualcosa che fa parte delle proprie paure, qualcosa con la quale si va a letto ogni notte, scopre così che l’autore si sia voluto mettere nella mente dell’altro, senza perdere la propria identità, senza farsi contagiare, condividendo un angolo nella sua mente, dando delle lezioni intime e private, che vengono conosciute attraverso uno strumento pubblico, qual è il libro. L’autore conclude con un atto d’amore e di compassione, esprimendo così la volontà di condividere la sofferenza altrui, intesa come forma d’amore elevata, come quella di vivere i dolori degli altri. L’etimologia del termine “compassione” è di per sé portatrice di un messaggio di passione realizzato con l’altro, per insegnarci ad aspirare a qualcosa di più alto che annulli il dolore. Ecco la conclusione di Ogni orizzonte della notte:                       

Sua figlia stava per morire. Il presagio lo afferrò per la gola e lo lasciò agonizzante nel vicolo, i suoi occhi feriti lasciavano colare sangue cristallino, era dissanguato, ormai, era la fine di tutto, di tutto ciò per cui valeva la pena lottare. Dov’erano finiti i sogni di quella bambina?                                                                                                                           Dove sarebbero finiti l’indomani quando non ci sarebbero stati più occhi per vederla e labbra per chiamarla? In quale nero abisso sarebbero finite le sue aspettative e la vita stessa che ingenuamente sognava? Aveva condiviso con Lui quei sogni e ora erano irrealizzabili. Era la beffa che il destino gli faceva, come se non fosse stato sufficiente il resto, tutto il resto. Si rialzò ancora a pugni stretti, riprese il cammino a occhi bassi, era un uomo vuoto, ormai, si sentiva come se non ci fossero altro che ossa e pelle, un manichino, un uomo di latta senza cuore, uno spaventapasseri senza cervello, ma soprattutto un leone che mai aveva trovato dentro di sé il coraggio. Raggiunse casa, non era necessario che stesse in ospedale, non c’era alcun trattamento possibile, gli avevano concesso un luogo familiare dove morire.

 

Ogni orizzonte della notte
Maurizio Vicedomini
Edizioni Augh!, marzo 2017
Pagine 160
Prezzo € 13,00

Franco Santangelo

Critico e Storico