Abbiamo fatto una gran perdita – Alberto Cellotto

Alberto Cellotto frequenta abitualmente la poesia, e da essa approda, con Abbiamo fatto una gran perdita (Oèdipus Edizioni), alla prosa: il passaggio, per quanto oggettivamente netto, è forse reso meno drastico dal fatto che il libro non sia una vera e propria opera narrativa, piuttosto una collezione di lettere, il cui filo conduttore è il mittente – ma sarebbe meglio dire lo scrivente, visto che nessuna delle lettere sarà mai in effetti inviata.

Questo espediente della lettera, che è di per sé comunicazione verso l’esterno ma anche, allo stesso tempo, scioglimento attraverso la scrittura di un sentire interiore, crea il ponte linguistico che può collegare le due forme letterarie: una grande libertà di espressione, l’atto del porre su carta l’intimo scorrere dei pensieri, permettono al filato del testo di accogliere tonalità, modulazioni e movimenti propri della poesia, in certi passaggi assonanti, nelle fugaci descrizioni di ambiente e stagioni, in alcune riflessioni che si accendono o si estinguono in un lampo.

«Fa male questo flusso di pensieri che non si placa e che mai dà avvisaglie, né da dove proviene, né su quando potrà finire», dice Martino Dossi, l’uomo che scrive.
La trama è incentrata sul fatto che Martino, a seguito della perdita del lavoro, decide di allontanarsi per un po’ dalla compagna e dai figli, di prendersi un po’ di tempo, di cambiare momentaneamente aria. Sceglie di intraprendere un viaggio in solitaria, girando per l’Italia con la sua macchina e fermandosi di città in città in una serie di hotel, nei quali trascorre spesso non più di una notte. Questa valvola di ossigeno, impulso ad andare, allontanare, si rivelerà però ben più estesa delle concordate tre settimane di assenza da casa: man mano che si procede nella lettura si ha la sensazione che la cosa stia prendendo una direzione tutta sua, che stia crescendo modellandosi sulla psicologia del protagonista. Soprattutto si percepisce che appena sotto il pelo dell’acqua attendono problematiche molto più grosse di un licenziamento, qualcosa che ha a che fare con gli estremi della vita.

«Mi allargo, mi innalzo e se l’immaginazione regge provo a capire dove sono le pareti dell’universo, se ci sono, se si spostano, se si contraggono o restringono come un maglione lavato alla temperatura sbagliata, se sono quelle una volta per tutte

Tra i destinatari delle lettere ci sono amici cari, amori di un tempo e non ancora conclusi, amiche e coppie di amici che hanno formato famiglie, la sua compagna, persino una vicina di casa, o un’ex collega di lavoro. Ci sono persone vicine alla sfera più intima dello scrivente e persone quasi sconosciute. Uomini e donne (molte donne).
Multiforme il tenore e la forma delle comunicazioni a seconda del destinatario: una variazione che va dal sentimentale, al formale, all’accorato, al nudo e crudo, al pessimista, o ironico, o descrittivo, al filosofico. Si confidano paure, aspirazioni, domande, si rammentano tratti di un passato condiviso, si consegnano annotazioni e stralci di vita quotidiana, oppure ci si sfoga, nero su bianco, come nel caso dell’invettiva contro l’eccessiva vacuità dei social network e delle persone che vi si mettono in mostra: «L’assalto di stronzate ci ha invaso ogni angolo dei giorni ed è soffocante. Ci deve essere pure un altro modo, altri canali d’aria per tornare poveri senza ansie».

(E ce n’è anche per l’editoria forse, dove si dice: «Mi hai fatto notare tu come usano la parola ‘voce’ in modo ossessivo e ridicolo. Hai preso giusta la mira e ora trovo così insulso e sprovveduto questo parlare di voce: voce da trovare o da perdere, voce sicura, asciutta e mia nonna in carriola».)

Martino non è un uomo semplice, innanzitutto perché è un uomo colto, con l’aggravante di essere anche riflessivo. Ha un’idea rispetto a ogni cosa, e gli strumenti per disegnarla. Sembra avere anche una biografia ingombrante, fatta di innumerevoli esperienze affastellate, luoghi visti, persone conosciute, pensieri pensati, che ora tira fuori a caso dal cappello come un prestigiatore. Ha inoltre un’altissima sensibilità per la natura, per le microscopiche variazioni del cosmo e per il passo ondivago delle stagioni che cambiano, come quando dice:

«Arrivando qui un temporale in autostrada mi ha messo paura e gioia, aprendo la valvola difettosa dei ricordi come riescono soltanto quei temporali appena fuori stagione. Contemplando a destra i Colli Euganei, che si ergono insolenti senza annuncio sulla piana, ho distinto un colore. Un marrone già invernale».

I passaggi incentrati sull’osservazione del fuori e sulle impressioni che ciò induce rendono meno spiacevole la confidenza di cui a tratti lo scrivente ci investe: è un uomo che attraverso la scrittura si mette completamente a nudo, è quindi un po’ simpatico un po’ antipatico a tratti.

La scrittura è una scrittura consapevole delle proprie capacità, con uno stile che accosta il lirismo a un’estrema concretezza. Poco artefatta, la voce – uso il termine anch’io – è quella di un io prettamente maschile, con tutte le sue intuizioni e tutte le sue pastoie.
È una lettura di un certo livello, e a suo modo particolare. Non certo afferente al genere dell’intrattenimento, piuttosto una lunga riflessione sul sè e su questi nostri affanni contemporanei, nonché sulle mille sfaccettature in cui si può declinare una singola esistenza.

«Uno è uno e sempre uno e quello che io posso fare è sfregare quest’uno come una pietra focaia, farlo risplendere affinché incendi quel suo prezzo di prato già arido, dove permane la volontà di vivere.»

Ma permane la volontà di vivere?
Forse in Martino no. Qui si innesta il senso del tragico, in un’opera che paradossalmente, con pura antifrasi, prende il titolo da una risata: «Passano delle persone in corridoio e spengono per un secondo la fessura di luce sotto la porta. Uno fischietta e a chi è con lui dice qualcosa come abbiamo fatto una gran perdita, infine scoppiano a ridere a crepapelle».

In ultima analisi la grande protagonista di questa prova è la parola, non l’individuo (che è transitorio). Una parola che si sforza e che si tende, per amor della sincerità, cercando di perseguire il compito più arduo, ovvero mettersi a disposizione di un autore che ha «care le persone che avvicinano con un silenzio o con la parola quello che è vero a quello che è vivo».

 

Abbiamo fatto una gran perdita
Alberto Cellotto
Oèdipus Edizioni, 2018
Pagine 112
Prezzo € 12,50

 

Teodora Dominici

Articolista, collaboratrice editoriale free-lance e scrittrice in pectore