La pioggia a Cracovia – Simone Consorti

Cracovia è la città che fa da scenario all’incontro fra un fotografo ed un vagabondo: il primo fronteggia con la fotografia un mondo interiore che si va rovinando, mentre il secondo un mondo già rovinato. Gli scatti del fotografo hanno qualcosa in comune con il guardare quotidiano del vagabondo che memorizza tutto visionando al punto che l’identità dei due non è facile distinguerla. Cracovia è un’antica città della Polonia meridionale, ricca di storia, di cultura e di arte, ed è inoltre la città di Papa Wojtyla, vescovo. È in questo scenario che si concretizza il romanzo, iniziando con una blasfemia dissacrante nei confronti di Karol Wojtyla, dovuta all’evasione psicologica e un po’ meschina del vagabondo, che affonda in una bottiglia di vodka i suoi fragili pensieri. Nella città di Cracovia, dove piove spesso, è curioso rilevare come l’attenzione del fotografo, più che essere richiamata dalle ricchezze artistiche e culturali di cui gode la città, viene invece attratta dai vagabondi e da una pozzanghera piena di acqua piovana che appare come lo specchio di tutto il racconto: qui si riflette il campanile della cattedrale e la figura di due vagabondi di passaggio che, fra ombre e luci, fanno da corollario allo sfondo del racconto. La figura dei due vagabondi appoggiati l’uno all’altro, che si riflette nella pozzanghera, rappresenta l’immagine del progetto da realizzare, al quale viene dato il titolo “Svanendo”, collegato anche alla crisi del rapporto con la fidanzata del fotografo, Bianca.

Un rapporto pieno di incomprensioni, ormai definitivamente irrecuperabile, che mette in evidenza lo stridere di due mondi: quello del fotografo rappresentato dai vagabondi con la loro miseria e i loro cenci e quello di Bianca, incentrato sulla moda e su uno stile molto sofisticato, che la veste e la sveste a piacimento. Entra fra i vagabondi e i girovaghi per raccontare un modo di vita che nessuno conosce, apparentemente non violento, che non rispetta e non viola la legge. Queste persone, prive di un tetto, vivono alla giornata, non chiedono elemosina, né un letto o un pasto caldo, ma hanno come unica pretesa quella di vivere liberi la propria vita, come se fossero dei rivoluzionari senza armi. Approccia un vagabondo, sospettoso come tutti coloro che vivono sulle panchine, scopre che questi ha origine italiane, nasconde la sua storia di vita, che nessuno ha mai scritto. Vuole scoprire questo modo di vivere e con il suo clic vuole consegnare l’immagine di questo mondo di strada al presente, che subito diventa passato e si proietta nel futuro per riscattare un’esistenza e dare visibilità alla memoria visiva di queste persone, destinata a perdersi nel tempo, in quel tempo dove il vagabondo si sente “svanito” . Il fotografo racconta che per parlare col vagabondo si è dovuto appostare, dopo lo ha pedinato ed infine lo ha avvicinato mettendogli qualche soldo in tasca per facilitare il dialogo. Il barbone infatti gli racconta molte storie sulla vita di strada, ma solo storie e non storie di persone, accettando di partecipare al progetto di un mondo che ormai gli appartiene e che l’autore individua il luogo in quel parco centrale dove tutto si dispiega: dai comportamenti al linguaggio che ai bisogni della gente di strada; si parla di orinatoi, di odore di birra e di vodka, di bestemmie, di lavabi, di rapporti all’aperto e anche di un falso prete che celebra matrimoni finti per i turisti giapponesi. Scrive diverse volte a Bianca, la sua ragazza e non le nasconde di non essersi abituato alla lontananza, racconta di aver raccolto delle foto dei senza tetto per la mostra, che ha chiamato “Svanendo”, progetto, però, visto da lei come una forma di cannibalismo di un mondo diverso.

La cosa più incredibile è che ieri mi sono imbattuto, senza prevederlo, nell’individuo perfetto per il mio progetto. Appena l’ho visto mi sono sentito un po’ un prescelto ed è stato lui a ispirarmi il titolo “Svanendo”

Il vagabondo racconta inoltre la storia delle sue panchine, una appartente a un poeta polacco e un’altra in centro, nei paraggi della cattedrale, dove conobbe Padre Jakub, al quale riserva una profonda ammirazione per il modo di compiere la sua missione. Il prete lo invita a prendersi cura di sè, un invito per farlo ritornare sui suoi passi e poi gli raccomanda di stare attento alla ragazza dai capelli neri, poco distante dalla sua panca, che sa “di brina, di erba e di nebbia”. Il fotografo scrive nuovamente a Bianca informandola che il progetto “svanendo” ha iniziato a realizzarlo con il vagabondo, ma la notizia che Bianca si trovi in Spagna con l’amica bisex lo sconvolge e lo convinge a porre fine a quella storia. Anche il vagabondo racconta la sua storia con Chiara, che svolge la stessa vita e con la quale non c’è tanto filing. Insieme vanno a bere e fare qualche scatto, per dimenticare, anche se i pensieri riaffiorano. Il fotografo pensa a Bianca, quando erano stati a Cracovia e avevano provato ad avere un figlio, ma fu tutto un fallimento; vorrebbe rivedere il museo dove si trova il dipinto La dama con l’ermellino, quell’ermellino simbolo della maternità, vorrebbe rivedere anche il viso della dama e provare a leggere ancora quel sorriso sarcastico di Bianca per confrontarlo con quello del quadro.

… tu che sorridi con due dita sulle guance a incorniciarle, tu che balli a piedi nudi in quel cimitero di guerra tedesco, e che scatti con gli occhi strizzati e il tuo buffissimo turgore alla giugulare.

Ed egli spesso ripeteva fra se e se, quasi a volersi riprendere ciò che aveva perso: “Il resto della vita arriva sempre in ritardo, dopo che qualcuno ti ha già ammazzato…” Accomunava i propri ricordi a quelli del vagabondo, ricordi brutti come l’ingenuità costatagli la multa per essere salito su un tram senza biglietto e per avervi lasciato il passaporto e 5000 Zloty fuggendo con la paura che la ragazza che lo multava fosse Bianca in divisa, fredda e senza cuore. Entrambi si avviano per fare una foto alla pozzanchera e proseguire per il cimitero ebraico dove il vagabondo fa da cicerone, raccontando che i tedeschi avevano seppellito quel cimitero tre metri sotto terra, ma Cracovia è anche il luogo dove scoppiò la scintilla che portò alla seconda guerra mondiale e dove venne costruito, ad Auschwitz, il più grande campo di concentramento per deportati. Le tombe erano tutte anonime con delle scritte come: «Non sempre concordo con quello che penso / Non sempre l’amore o la morte hanno un senso». Entrambi si guardano chiedendosi il significato di quelle parole, ma nessuno dei due risponde a quel concetto chiaro che dà un senso alla vita e alla morte. L’autore stigmatizza il comportamento del fotografo che, con le sue ansie e i suoi alti e bassi comportamentali, si perde in diverse avventure, come quella del portafoglio e dei soldi, della perdita della macchina fotografica e delle lettere provenienti da Pompei che vorrebbe dare al vagabondo, si legge, così, un attegiamento di paura ad amare ancora, a scottarsi un’altra volta, come quella provata per la ragazza col flauto, di Cracovia. Alle controversie della vita rispondono entrambi con una fragrante e liberatoria risata, lontani dal pensare di avere perso tutto, sembrava che ognuno volesse fermare l’altro e abbandonare quella esperienza. Dopo la risata il fotografo chiede al vagabondo: dimmi, è vero che hai pisciato sulla statua di Wojtyla? Si, lo giuro, risponde. Lo sai che rischi di avere tagliato l’uccello? Sicuramente lo porteranno in giro per le basiliche…diventerai un martire, ma non potrai pisciare più! Subito dopo aggiunse: beviamo alla ragazza dai capelli neri, al quadro della dama, alla macchina fotografica e a tutto il resto, poi ci separeremo di nuovo con un arrivederci. Ma qui finisce la loro storia perchè non si incontreranno più, svanisce la loro identità. Il fotografo adesso guarda gli scatti racchiusi nel pennino che gli aveva lasciato, dove c’erano le foto di tanti sorrisi, che gli sembravano quelli di Bianca, uno dei quali appare nella sua memoria che, però, lo isola dagli occhi, dal naso, fino a percepirlo come il sorriso di una tigre pronta ad azzannarlo. A conclusione del romanzo viene ritrovato tutto, anche la macchina fotografica, dove c’era ancora lo scatto della pozzanchera, forse, però, non era la sua macchina fotografica, ma del vagabondo, con lo scatto fatto tre anni prima, come se il suo progetto esistesse già da tempo, prima del suo arrivo a Cracovia. Si può affermare che la pioggia a Cracovia continua a battere, tutto si muove come sempre, gli abitanti, i preti veri e quelli falsi, i turisti, i vagabondi, mentre un fotografo amatoriale, non tanto anonimo ma di passaggio, compie uno scatto fortuito che immortala il fotografo vero nella panchina del vagabondo e poi svanisce… Questa storia, raccontata alternativamente in modo “recitato” dai due soggetti principali, rimane sommersa come tutte le storie dei vagabondi. Nonostante la concomitanza dei comportamenti e dei motivi che hanno guidato i due nel romanzo, si può affermare che quei comportamenti ci rinviano ai motivi e questi ultimi spiegano i comportamenti di entrambi, possiamo avviare un processo di esegesi che ci porta a superare la contrapposizione apparente dei due, fra l’altro avallata dallo stesso autore quando nega la scissione dei due soggettti principali non pervenendo all’assegnazione di un loro nome proprio. L’Autore chiude il racconto con un arrivederci che, in fondo, è un addio, facendo “Svanire” così entrambi i soggetti, sintetizzandoli in un “unicum”, in quanto quell’esistenzialismo perde la continuità perchè la perdita di identità di uno dei due personaggi determina l’incompatibilità con il continuum dell’essere.

La pioggia a Cracovia
Simone Consorti
Editore Ensemble Srls, il 1 gennaio 2019,
Pagine 106
Prezzo € 12,00

Franco Santangelo

Critico e Storico