Gianfranco Cambosu: scrittore eccentrico

Il gusto letterario è sempre prerogativa di pochi eletti: chi ha la possibilità di fornirlo ai propri lettori è uno scrittore di talento. Tra il serio e il faceto viene fuori qualcosa di eccentrico e di raffinato aspetto non solo della lingua italiana ma anche della struttura di essa. E il contenuto richiama, come abbiamo visto, il noir, il romanzo criminale Pentamenrone barbaricino di Gianfranco Cambosu: un testo atipico, che rimanda al classico con chiari riferimenti all’attualità. L’autore ci racconta qualche retroscena.

In una modernità legata ai reality, alla superficialità, da dove nasce la struttura del suo romanzo che richiama al Boccaccio?
Mi è sempre piaciuto combinare il serio con il faceto, amalgamare echi letterari ed esperienze effimere che ci cadono addosso senza chiederci il permesso. I reality, indubbiamente, sono il trionfo dell’effimero e dell’inconsistente. Ma, paradossalmente, vi avevo ravvisato dei tratti in comune col Decameron: il fatto di trovare delle persone che vivono una situazione di momentaneo allontanamento dal mondo, intente a ingannare il tempo e animate dalla necessità di sopravvivere a qualcosa. Così alcuni anni fa mi venne in mente di scrivere una storia di sbandati (uno dei quali potrebbe stare benissimo in un reality), costretti a trascorrere dei giorni in una banca con degli estranei. Sbandati che, in una certa misura, si nobilitano con la narrazione delle proprie storie, pur ignorando perfettamente chi fosse Giovanni Boccaccio.

A quale pubblico è destinato il suo romanzo criminale?
Penso a un pubblico eterogeneo, ma sono lontano dagli estremismi: non potrebbe essere quello di Moccia, sicuramente, ma forse neppure quello di Eco. Penso che il mio romanzo si possa leggere benissimo anche senza aver letto il Decameron. D’altro canto, un lettore che si attende un noir classico potrebbe avere qualche sorpresa. Nel noir contano di più la trama e la capacità di coinvolgimento e di suscitare l’indignazione nel lettore. Io ho badato naturalmente anche a questo, ma non me la sono sentita di sminuire la lingua e l’introspezione. Soprattutto sulla lingua ho lavorato molto.

I suoi personaggi sono diversi gli uni dagli altri: c’è una concatenazione nella scelta, oppure sono nati per caso?
Non sono nati a caso. Per quasi tutti avevo pensato a un personaggio reale, appesantito da una serie di difetti che dovevano marcare dei caratteri specifici: Cadena è un bandito sadico e sanguinario, ma dotato di una sottile ironia che sconfina nel sarcasmo; Tinteri è uno che osserva alcune regole e che non ama gli inutili spargimenti di sangue. Insomma due diversi modi di essere criminali.

Quanto dista il suo racconto dalla realtà?
La distanza dalla realtà è inevitabile nel momento in cui due banditi asserragliati in una banca si trasformano da assedianti in assediati. Per il resto, le cronache non solo sarde ma anche di altre parti d’Italia sono piene di personaggi come Tinteri e Cadena. Quest’ultimo, purtroppo, ha una componente reale piuttosto accentuata. Certo la dottoressa Eleonora Trentin con le sue storie di sette sataniche sembrerebbe del tutto improbabile in un contesto come quello barbaricino.

Il personaggio legato alla dottoressa, per certi aspetti appare enigmatico; come nasce?
Non mi sono ispirato a nessuno in particolare, piuttosto a fatti di cronaca antichi e recenti. Quello di Eleonora Trentìn è un personaggio di fantasia. Mi sono servito delle vicende che la riguardano per mettere a confronto due realtà geografiche differenti, il ricco Nord e la Barbagia, e per riflettere o far riflettere su certe propensioni a delinquere. Alla fine, ti rendi conto che il presupposto roussoiano della corruzione dell’ambiente che prevale sulla bontà primordiale dell’uomo non è sempre vero. Certi individui delinquono a prescindere dall’ambiente, che comunque ha sempre un suo ruolo.

Qual è il messaggio che vorrebbe lasciare al pubblico che legge il suo testo? Per quale motivo, secondo lei, il romanzo dovrebbe essere letto?
Un messaggio potrebbe essere la necessità di confrontarsi con l’alterità, benché si tratti di un confronto in negativo, qualcosa sicuramente da non emulare. Si fa un gran parlare delle differenze tra il Nord e il Sud d’Italia, isole comprese, a beneficio del primo, ma se si vanno a leggere i romanzi di Carlotto ambientati nel Nord-Est, ci si accorge che non è tutto oro quello che luccica. Si scopre, per esempio, che certe imprese che reggerebbero il timone dell’economia nazionale non sarebbero esenti da un peccato originale. A mio parere il romanzo andrebbe letto come una serie di flash su determinate porzioni di società, senza pensare che certe cose non possano accadere altrove. A dire il vero, volevo anche sottolineare un problema che riguarda non solo la Sardegna ma anche altre regioni e di cui sempre più raramente sento parlare. Non dirò quale per non svelare il finale.

Cosa pensano i suoi alunni di questo eccentrico romanzo criminale?
Mi sono divertito molto a sondare le loro reazioni senza sollecitarle apertamente. Intanto non ho chiesto a nessuno di acquistarlo, quindi ho ottenuto che molti lo facessero. Un mio alunno mi ha molto simpaticamente sottolineato che forse certi termini e certe tematiche non erano proprio edificanti. Così ho pensato che ognuno di noi dovrebbe avere un punto di riferimento in termini comportamentali e di immagine, qualcuno che stia sopra di noi: il figlio il padre, l’alunno l’insegnante, l’insegnante le cariche istituzionali, che so, il Presidente del Consiglio per esempio. A quel punto mi sono messo l’animo in pace: ho capito che i ruoli si erano già ribaltati. Ho anche pensato che fosse inutile chiudere il recinto dopo che i buoi sono scappati. Io, però, mi ostino a chiuderlo, nonostante tutto.

Il finale lascia discutere un po’ tutti: chi condivide, chi si aspettava altro, chi vuole un continuo, chi rimane perplesso, chi è decisamente soddisfatto. E lei, cosa ne pensa del finale?
In effetti sul finale ho raccolto pareri contrastanti. C’è chi mi ha detto che gli risultava forzato e un po’ surreale, chi invece è rimasto piacevolmente stupito. Avrei detestato che qualcuno lo definisse scontato. In ogni caso, se dovessi riscriverlo non cambierei una virgola.

C’è qualcosa di autobiografico?
C’è sempre qualcosa di autobiografico in un romanzo, ma questa componente si potrebbe individuare nei dettagli piuttosto che nelle cose essenziali.

Qual è il suo personaggio preferito?
Forse Tinteri, per la sua ansia di trovare una via d’uscita senza perseverare nell’errore.

Qualche personaggio le somiglia?
Onestamente, nessuno di quelli importanti.

Ci sarà un seguito?
Dato il finale, è molto improbabile. E poi ho altro nel cassetto.

 

Maria Ausilia Gulino

Teacher – Journalist