Il vino della solitudine – Irène Némirovsky

Ci sono romanzi che si leggono ed altri che ci leggono. Il vino della solitudine di Irène Nemirovsky è uno di questi. Tra i lavori della scrittrice ucraina, questo è quello più autobiografico, dove alle vicende personali s’ intrecciano quelle storiche della Prima guerra mondiale, avvenimento che costringerà la famiglia Karol a diversi spostamenti tra Pietroburgo, Helsinki e Parigi.
La figura della giovane protagonista, Hélène, non è altro che l’alter ego dell’autrice, di cui ella si serve per sciogliere gli intricati nodi emotivi della sua fanciullezza. La piccola è terribilmente soffocata dal difficile rapporto con la madre, Bella Karol. Bella è una donna-civetta con il solo scopo di esasperare la magnanimità che la natura le ha concesso, sperperando il patrimonio di un ebreo che ha sposato, Boris Karol, in belletti e tessendo languide amicizie con giovani amanti. La consacrazione di questa donna ad una mera estetica dell’apparenza non le negherà un naturale contraccolpo, quello dell’ ineluttabilità del tempo che mostrerà i suoi segni su un corpo, un tempo, avvenente e desiderabile; poi, decrepito e disgustoso. Da questa consapevolezza, prenderà avvio la vera decadenza del personaggio. Come sola giustificazione ad una vita dissoluta e lontana dai suoi impegni morali, lei stessa oserà dire «non sono nata io per fare la brava mogliettina borghese placida e soddisfatta, con un marito ed una figlia». Ma nella vita di Bella Karol l’unico peso che viene avvertito non è definito dall’incombenza di schemi sociali, ma di una figlia, verso la quale riesce a provare solo un abominevole disprezzo.

Hélène, in realtà, è la controfigura di sua madre, e al suo disprezzo non può che rispondere con puro rancore ed odio. Tuttavia, la giovane protagonista non è priva di tenacia, nella ricerca di un sano equilibrio. Un equilibrio che le costerà caro: dissetarsi del magro vino della solitudine. È  questo il prezzo della sua libertà.

C’era tutto un viaggio da fare per arrivare fino a loro.

Sarà un vero e proprio viaggio quello compiuto dalla Hèléne-Irène perché è chiaro che per liberarsi dei propri avi, dei propri fantasmi bisogna prenderli sotto braccio e farci un pezzo di strada insieme. Attraverso questo cammino si nasconderà il bisogno di Hélène di diventare adulta, di emanciparsi da sua madre: un modello che non riconosce congeniale alla sua crescita. Nel tortuoso cammino vitale, Hélène conoscerà le emozioni più oscure: il disprezzo materno e l’indifferenza paterna. Pare che a lei non siano riservate le attenzioni e l’amore che spettano di diritto ad ogni creatura. Tutt’altro. Se la propria casa è culla e rifugio di gioie e dolori, per Hélène è, invece, la primissima palestra in cui allenare la sua anima alle intemperie di un destino emotivamente avverso. A lei toccherà fare l’ingresso in società senza la carezza vitale di quelle figure che, con orgoglio o vergogna, ci trasciniamo dietro per tutta la vita.

E di questo personaggio, così fragile ed indifeso, privato di un’ àncora che gli impedisce di essere trascinato da una corrente di detriti che porta il nome dei Karol, come non supporne la deriva? Ma proprio ora il lettore deve essere fiducioso e lasciarsi accompagnare nell’esplosione emotiva della protagonista.

Alla parabola dei coniugi Karol, distruttiva per la crescita di Hélène, perché tessuta da una profonda inettitudine morale, la Némirovsky riesce a descrivere con la grazia del lieve tocco di un pittore romantico, l’indissolubile legame che lega Hélène a Mademoiselle Rose, la giovane governante che riesce a lenire la solitudine della piccola Karol prendendosene cura con un sincero amore materno, curando ella stessa la propria solitudine. Le sole carezze che Hélène conosce sono le sue così come suoi saranno i suggerimenti per non trovarsi impreparata ad un eventuale scacco-matto della vita.

Ma se Mademoiselle Rose è la quercia a cui aggrapparsi per difendersi dal non-amore di Bella, Hélène farà fatica a diventare adulta senza guardare in faccia quel mostro che la perseguita. Ed in una lotta titanica madre-figlia, decretare chi sarà il vincitore e chi il vinto, è l’ interrogativo a cui la Némirovsky cerca una risposta. Hélène non può esimersi da quel confronto, momento cruciale per la definizione della sua volontà. E se il suo patrimonio genitoriale sembra avvilupparla alla ferocia della solitudine, lei decide di sottrarsi. Non ne vuole sapere, proprio no. Ma la rabbia che cova dentro per quel nemico è tale da volerlo distruggere. Allora, architetta un piano di vendetta: rubare l’amante a sua madre, Max, il responsabile del suo dolore.

Come non pensare alla celebre figura del mostro di Frankenstein – magistralmente scolpita dalla penna di una giovane Mary Shelley – che rivolgendosi al suo creatore gli chiede «ti ho chiesto io, creatore dal fango di farmi uomo? Ti ho chiesto io di trarmi dal buio?» (citando a sua volta il John Milton de Il paradiso perduto).
È proprio questo il rimprovero che la piccola Hélène rivolge a sua madre. E come il mostro della Shelley da creatura buona ed inoffensiva si trasforma in creatura mostruosa, così farà Hélène, perché entrambi sono vittime innocenti del più atroce delitto: quello di un genitore che non ama suo figlio.

Proprio adesso si assiste all’ esplosione del personaggio, alla sua consapevolezza di dover “venire al mondo”, di nascere di una nuova sostanza. La decisione di rubare l’amante a Bella, segna il momento in cui Hélène ha piena coscienza del suo potere di donna, del potere di un corpo desiderabile e giovane che vince su quello decadente di sua madre. Però, anziché gustare il sapore della vendetta, ha in bocca il sapore di una cupa e mortificante delusione.

Con questo piano di vendetta, verrebbe da chiedersi se non sia stata prevedibile o debole la giovane Hélène rispetto all’ obiettivo di emanciparsi da sua madre, se poi gioca la sua stessa carta. Ma se istintivamente questa tesi è accreditabile, d’altra parte come biasimare Hélène Karol se il solo confronto che ha avuto con il mondo è stato il dispotismo di una madre e l’inettitudine di un padre unicamente devoto al denaro e al mito di sua moglie?

Il nodo verrà sciolto solo in un “più tardi” narrativo sublimato da un pantone di emozioni dove la protagonista comprende che il traguardo dell’ emancipazione consiste nello spogliarsi delle vesti che per troppo tempo hanno oscurato la silhouette della propria anima. Hélène dovrà vincere se stessa perché non può passare una vita a detestare le proprie radici, se stessa.

È doveroso procurarsi questo piccolo scrigno di bellezza che, sul finale, non mancherà di rigare il volto con una lacrima di tenerezza accompagnando l’ augurio di una buona vita a quella giovane donna, canticchiando, in sottofondo, quel sublime verso intonato da Bob Dylan in Blowing in the wind: «How many roads must a man walk to be a man?»

 

Il vino della solitudine
Irène Némirovsky
Adelphi, 2013
Pagine 245
Prezzo di copertina  11,00

Imma Paone

Studentessa Universitaria