Se avessero – Vittorio Sermonti

La prima cosa che mi viene da dire sul nuovo romanzo di Vittorio Sermonti Se avessero (Garzanti, marzo 2016), candidato al prossimo Premio Strega, è l’aggettivo “articolato”. Una trama che parte da un fatto ben preciso, e che poi si allarga a macchia d’olio, scandagliando i ricordi di una vita. Una prosa elegante e ricca di digressioni, dove i concetti sono ripresi più volte e rimandano a pagine precedenti. Un letterato capace di unire un lessico aulico alle memorie del ragazzino di 15 anni che è stato, al tempo dei fatti. Un’autobiografia che presenta tante sfaccettature dell’Italia di allora, nel maggio del 1945.

Avrei detto tutto e qui mi sarei fermata, se non dovessi dare conto di quanto letto. Un’opera non facile, che molto si discosta dal linguaggio corrente a cui ci hanno abituato gli scrittori contemporanei, e che quindi, a lungo andare, se non si entra in sintonia con lo stile dell’autore potrebbe anche sembrare ripetitiva o addirittura annoiare. Va a gusti: personalmente preferisco sempre qualcosa di più immediato, ma riconosco di trovarmi davanti ad un’opera di pregio.

Il romano Vittorio Sermonti ha 86 anni – classe 1929 – e definisce questo romanzo come la sua “opera ultima”, in un sottotitolo. Narratore, saggista, traduttore, regista di radio e tv, traduttore e giornalista, è quel che si dice una personalità eclettica.

Se avessero sparato a mio fratello, che dire? E nel caso, perché tentare di dirlo? Mi riservo di rispondere quando mi verrà fatto se mai dovesse venirmi fatto. Intanto, visto che un’ipotesi di questo genere mi ossessiona da un pezzo (ossessiona: non esageriamo), vedrò di mettere le mani avanti con una descrizione piuttosto dettagliata del luogo dove la cosa sarebbe potuta succedere, dove poco mancò non succedesse, cioè il vano d’ingresso del villino contrassegnato dal civico 41 di un largo viale in zona Fiera di Milano, largo e viale sebbene detto via – via del Domenichino.

“Se avessero sparato a mio fratello” è la frase chiave , da cui tutto ha origine, anche se l’autore ha confessato in un’intervista che stava lavorando a quest’opera dal 1984, perfezionandola negli anni. In una giornata dei primi di maggio 1945, in una villetta di Milano si presentano tre partigiani armati di mitra, in cerca di quello che l’autore chiama frater maximus, il fratello maggiore sempre tirato in causa con le iniziali FM. Bello, biondo, ex sottotenente di un reparto regolare parafascista forse denunciato da alcuni vicini, il ragazzo ventiquattrenne ben reagisce alla sorpresa e risponde sprezzante: “non so se ammazzarmi vi conviene poi tanto”.

In apparenza incurante del pericolo, egli riesce a tenere loro testa e ad evitare che si compia una strage. Il protagonista, allora quindicenne, rimane scioccato dal fatto, e cerca di pensare cosa sarebbe successo se quel giorno, alla presenza del padre, della madre e degli altri figli – la famiglia è composta di quattro fratelli e tre sorelle –, i partigiani, coi loro rastrellamenti iniziati proprio in quel periodo, avessero ucciso qualcuno di loro. È un momento drammatico che il ragazzo ripercorrerà più volte. Con grande disinvoltura, invece, il fratello li chiama “compagni” e mostra loro una tesserina rossa e nera che testimonia la sua affiliazione agli anarchici.

La ricerca di noi stessi, che ogni giorno ci accingiamo a perseguire, si dimostra ridicola. La realtà, come dice l’autore, è che “non contiamo niente, perché ognuno conta purtroppo tutto”.
Attraverso un flusso di coscienza che racconta settant’anni di vita, l’autore parla della famiglia, degli amici e delle donne che lo hanno accompagnato. E poi, traccia il ritratto di alcuni intellettuali, fra tutti quel Pier Paolo Pasolini che rideva di rado e non lo aveva in simpatia, e che quando giocavano, poeti e giornalisti contro i ragazzini di borgata, non gli passava mai la palla.

 

Se avessero
Vittorio Sermonti
Garzanti, 2016
Pagine 154
Prezzo di copertina € 18,00

 

Cristina Biolcati

articolista, scrittrice e poetessa