La grande A – Giulia Caminito

È difficile parlare di questo libro, da un lato perché sembra in grado di indurre il mal d’Africa anche in chi l’Africa non l’ha mai vista, nemmeno in cartolina, dall’altro perché è composito, invasivo, millimetrico, seduttivo come le malìe narrative del miglior Márquez. E qui credo di non attirarmi contro le ire funeste di un’intera schiera di critici e scrittori, se vorrò affermare che nell’opera di esordio di Giulia Caminito, giovane editor romana, si risente un’eco del realismo magico del grande sudamericano, nel colorismo di certe descrizioni, nella perentorietà di affermazione che costruisce e delinea i personaggi – con quello sguardo onnisciente capace di vedere dentro, fuori e nel futuro –, e nell’amore manifesto per la materia narrata, declinato in amore per una terra, anche quando la razionalità impone di svelarne i difetti, le asprezze, le decadenze.

Una prosa fortemente innovativa e molto riconoscibile, spiccia e poetica insieme, dà forma alla storia di Giada, atipica protagonista che vediamo ragazzina in una Milano disfatta dai bombardamenti, poi ragazza nella tanto vagheggiata Africa (dove sbarca per raggiungere la madre), e infine giovane donna, a un prezzo decisamente alto: la gavetta nel bar di Assab in cui la madre mette tutti in riga, un matrimonio affrettato con un uomo che non era pronto a impegnarsi, un figlio amatissimo da mantenere lavorando, con una tenacia che assieme all’essere costantemente sottotraccia è una delle caratteristiche principali di Giada.

Eppure a questa ragazza sparuta, sottile come “una raganella”, tutti vogliono bene. E non perché induca compassione, ma perché ha il candore e la forza d’animo di stare nelle cose, anche quando le cose sono assurde, come la gazzella domestica Checco, i Diavoletti di strada che corrono, rubano, giocano per le vie di Assab, i safari indiavolati col marito e il figlio a bordo di una jeep nella polvere del deserto, e i salamelecchi di un’alta società italiana in terra d’Africa, Nuovo Mondo ove tutto è possibile, dove esistono balli, pranzi dall’amministratore inglese, concorsi di bellezza e partite a poker con i notabili e la bella gioventù coloniale, ma anche baracche squallide, un caldo devastante e invadente, povertà e iene che si aggirano al confine della zona abitata.
Giada, da bambina, ha fatto in tempo a vedere arrivare gli americani a liberare le città italiane dopo la guerra, e si è beccata pure quella, il suo personalissimo scampolo di guerra:

«Appena la sirena si faceva sentire, mollavano quello che stavano facendo, la radio, l’orticello, la credenzina degli stracci, i piatti sempre più puliti visto che nessuno ci mangiava dentro, l’unica bottiglia di vino nero nero in cantina, e partivano, in fila indiana, per i campi».

Durante questa infanzia fatta di fame nera, di nebbiolina lombarda, di rifugi in cantina assieme agli abitanti delle case vicine, ormai una specie di unica grande famiglia, Giada ha modo di fantasticare intorno a sua madre, la donna energica e bellissima che le ha promesso un giorno di portarla con sé:

«Se ci fosse stata la Mamma avrebbe giocato con l’elefante della bambina raccontandole come sono grandi quelli che si trovano alla Grande A. Immensi, le avrebbe detto, sono delle montagne, hanno delle orecchie come due vele, e starnutiscono in continuazione. Tutti  avrebbero riso, e lei avrebbe concesso di mettere a turno il rossetto rosso pomodoro per poi mandarle al bagno a guardarsi. Dopo le avrebbe pulite con il fazzoletto a fiorellini rosa e avrebbero provato le sue scarpe di cavallino, ticchettando sul legno del corridoio senza farsi vedere dal controllore. Avrebbe raccontato che lei fumava solo francesi senza filtro e metteva sul collo solo Chanel N°5, dato che a Parigi le cose frivole le sapevano fare bene.
Avrebbe portato la marmellata, giacché il pane così senza niente faceva venire le lacrime agli occhi. Ci vuole sapore.»

Quando sbarca in Africa, lo sguardo di Giada si riempie di una tale moltitudine di immagini, visi, animali, colori nuovi da lasciarla senza fiato, e anche molto, molto disorientata. In seguito però «Giada avrebbe amato tante cose della Grande A. Come sciacquarsi l’henné nel Mar Rosso, l’odore di limone e catrame; la baia stretta dagli scogli e le vongole grandi come pugni; le stecche di ghiaccio sciolte nelle cisterne; la terra rossiccia; il gallo alla mattina e le sue tracce nella polvere per riacchiapparlo quando si perdeva su Viale Dogali», ma anche «stare senza vetri alle finestre con solo tendine bianche, rancide di sabbia, colme di sale, anche loro, come tutto il resto, di un mare infinito che toccava le sorgenti e le case: un mare che cresceva giovane nelle baie e diventava vecchio nel deserto; il suono delle palle da biliardo, la otto contro la due, la quindici al centro, la uno toccatela solo alla fine, come se fosse la vostra sposa dopo il sì lo voglio».

La cosa più importante della grande A, dell’Africa, però, è che lì c’è sua madre, Adi, questa donna vulcanica e diretta, fierissima e irriducibilmente indipendente, che dice le cose in faccia, guida i camion, schiaffeggia i preti, e soprattutto è sempre pronta a rialzare la figlia quando la vita la fa inciampare, anche brutalmente, ma con una presenza di spirito che non può che farla amare:

«Buttò la pasta a cuocere; acqua salata e mestolo di legno. Si affacciò al bagno. Alzati da lì, che ne hai viste di peggiori. Sei sopravvissuta ai tedeschi e fai queste scene per un disgraziato tale e quale a tutti gli altri, che tra due mesi starà di nuovo qui fuori alla tua porta? E poi che nome è Olia? Serve al massimo a condire le verdure. Mangiati due spaghetti. Al resto penso io».

Questo libro è fresco, è nuovo, è forte, perché di alcuni dati autobiografici ha fatto un romanzo familiare e storico assolutamente diverso da qualsiasi cosa esistesse prima: la vita ci scorre dentro senza alcuna mistificazione, e bello è lo sfasamento linguistico tra i tratti tipicamente lombardo-milanesi di certi dialoghi e di certi passaggi e gli improvvisi echi del romanesco in altre situazioni, a seconda del punto del  racconto o di chi sta parlando in quel momento.
L’energia creativa nel dare le coordinate di un mondo si avverte anche e proprio qui, nell’utilizzo della lingua:

«Ma la parola che la Giada amava di più era sharab. A Milano nessuno la conosceva. Era l’impasto casalingo tra lo shut up inglese e la tipica strascicata lingua dell’Adi, e di quegli italiani come lei che in Africa s’erano appropriati del linguaggio altrui creando parole a propria immagine e somiglianza. Avevano inventato un mondo tutto loro. Sharab era perentorio, ma unto come una cotoletta nello strutto. Sharab era il segno di confine, dopo si doveva abbassare la testa».

Perciò leggiamo il libro, e sharab!

 

La grande A
Giulia Caminito
Giunti, ottobre 2016
Pagine 288
Prezzo di copertina € 14,00

Teodora Dominici

Articolista, collaboratrice editoriale free-lance e scrittrice in pectore