Il tatuatore di Auschwitz – Heather Morris

Si può trovare l’amore in un campo di sterminio? Prima di leggere Il tatuatore di Auschwitz, della neozelandese Heather Morris (Garzanti, 2018), avrei detto di no. Perché l’amore è un  sentimento che necessita di tempo e di talune certezze, che in un posto simile non risiedono. Per esempio il privilegio di essere ancora in vita il giorno successivo. In condizioni estreme, si sa, l’essere umano non sceglie: cerca comunanza.

Poi ho letto questo libro, che è una storia vera, e mi sono ricreduta. Nel 2003 l’autrice ha raccolto e rielaborato la testimonianza di un anziano signore, che da poco è stata data alle stampe. Quella dell’ebreo di origine slovacca Lale Eisenberg (cognome cambiato poi in Sokolov) che, nell’aprile del 1942, è stato deportato ad Auschwitz al posto di suo fratello che aveva moglie e figli. Dopo avere rischiato di morire di tifo, Lale viene curato da un uomo che gli insegna a tatuare i prigionieri, opportunità che gli salverà la vita in più circostanze. Diventa così il Tätowierer ufficiale del campo, sia di Auschwitz che del vicino Birkenau.
Ed è proprio mentre svolge il suo compito disumano che Lale incontra Gita, la prigioniera 34902 nonché la ragazza che gli darà la forza di sopportare tutto. Di restare vivo ad ogni costo, allo scopo di uscire da lì e costruirsi insieme un futuro.

Lale cerca di non alzare lo sguardo. Allunga la mano e prende il pezzo di carta che gli viene porto. Deve trasferire le cinque cifre sulla ragazza che lo stringe. Quando ha terminato, la trattiene per il braccio un attimo più del necessario e la guarda ancora negli occhi. Abbozza un sorriso timido e lei risponde con un sorriso ancora più timido. Tuttavia gli occhi di lei gli danzano davanti. Mentre li fissa, sembra che il suo cuore allo stesso tempo smetta di battere e ricominci per la prima volta, impetuoso, minacciando quasi di scoppiargli fuori dal petto. Lale abbassa lo sguardo verso il suolo che oscilla sotto i suoi piedi. Quando risolleva lo sguardo, lei non c’è più.

La storia di questo anziano signore, morto nel 2006, che all’inizio doveva essere la sceneggiatura di un film e invece è divenuta il romanzo d’esordio di Heather Morris, tocca diversi punti. L’abominio dell’Olocausto, con le sue uccisioni senza motivo; il raccapriccio delle camere a gas così come l’oscena realtà dei forni crematori. Lale è costretto a marchiare altri uomini; ad incidere la pelle di donne, vecchi e bambini e passare un colorante sui tagli; ad ignorare il sangue. Questa posizione “privilegiata” gli permette però di muoversi all’interno del campo e aiutare i compagni, procurando loro del cibo e persino qualche tavoletta di cioccolato.
Gli occhi di Lale sembrano assuefatti ai crimini, è vero, e il suo cervello forse è anche leggermente anestetizzato, come sempre capita nelle situazioni disperate. Ma sa rimanere lucido, al fine di  proteggere Gita, la donna della quale è innamorato. Si sono incontrati in un momento di fragilità. Gita è per lui un faro, una motivazione e una speranza di riscatto.

Il tatuatore di Auschwitz, come tutti i romanzi che trattano l’Olocausto, parla di assenza di umanità, ma con un valore aggiunto. Una storia d’amore che fa la differenza, quella di Lale e Gita. Attraverso un linguaggio semplice, cinematografico, l’autrice descrive gli episodi che le sono stati riferiti, annullandosi e astenendosi dal dare giudizi. Le pagine trasudano amore e vita. Sebbene in condizioni estreme e là dove nessuno riteneva fosse possibile.


Il tatuatore di Auschwitz
Heather Morris
Garzanti, gennaio 2018
Pagine: 224
Prezzo: € 17,90

 

Cristina Biolcati

articolista, scrittrice e poetessa