Claudio Aita: il male dell’uomo

Sincero, frugale, timido: con questi tre aggettivi si descrive lo scrittore Claudio Aita che in questa intervista ha parlato del suo ultimo libro La città del male: un romanzo che coinvolge e attrae il lettore fin dalle prime pagine.

La città del male, il suo ultimo libro, di cosa si tratta?
Cosa hanno in comune i delitti del “Mostro di Firenze”, un manoscritto criptato trascritto da un prete di campagna a fine ‘700, un processo dell’Inquisizione del ‘300, la morte di un professore in un incidente automobilistico? C’è un filo rosso sangue che unisce tutti questi eventi. Lo scoprirà a sue spese una mente brillante ma dedita all’alcol e con pensieri suicidi, Geremia Solaris. Ma la ricerca della verità, fra colpi di scena e morti inspiegabili, sconvolgerà per sempre la sua esistenza. La scoperta di un male senza tempo e di una realtà, di una città, dove nulla, assolutamente nulla, è quello che appare.

Cosa  rappresenta per lei il genere thriller?
Il thriller per me non è solo un genere letterario in senso stretto ma rappresenta anche uno strumento per indagare la realtà dell’uomo. Un modo per interrogarci sul mistero e sul senso ultimo delle cose. In definitiva, il thriller può assurgere a vera letteratura. Nei miei libri, al di là della trama, vi è una lettura del mondo. I miei eroi sono degli sconfitti dalla vita, dei falliti che non possono ambire a nessuna forma di redenzione o riscatto, che prima o poi comprendono che la speranza è una mera illusione. La loro ricerca, la scoperta della verità non ne farà degli uomini migliori o più realizzati. La mia visione dell’uomo è decisamente pessimista. Perché il thriller, allora? Perché è il genere migliore per descrivere la realtà di ogni giorno, per dipingere un mondo dove non hai scelta: o mangi o sei mangiato. I rapporti economici e sociali sono dettati da una violenza che non è mai venuta meno in tutta la storia dell’homo sapiens. Parlare di delitti, di fatti di sangue, di gruppi potenti per i quali uccidere è strumentale per il perseguimento dei loro interessi, è indagare davvero l’animo umano. Uno scrittore deve sporcarsi le mani per poter scrivere.

Come è nata la scelta di ambientare il libro a Firenze?
Sono giunto a Firenze, da studente squattrinato, nei primissimi anni ’80. Sono sempre rimasto affascinato dalla doppia anima di questa città, una solare, quella dell’arte e dei monumenti, e una profondamente nera, sotterranea, inconfessabile. Nella mia mente avevo ben chiara l’immagine ideale che avevo appreso dai libri. Gli anni del mio arrivo, invece, sono stati gli anni del Mostro, dei delitti terribili che hanno fatto emergere un mondo di guardoni, di violentatori di cadaveri, di pedofili, di pervertiti che per soddisfare le loro voglie non avrebbero esitato ad utilizzare qualsiasi mezzo. Firenze è anche la città con il maggior numero di massoni, dopo Roma, e chi abita qui sa benissimo che il successo economico di tante aziende e di tanti uomini politici e funzionari dipende dalla loro appartenenza o meno a una loggia. Gli scarichi fognari hanno una concentrazione di cocaina superiore a quella di qualsiasi città italiana. E si potrebbe continuare a lungo. Quindi, Firenze è lo sfondo ideale di qualsiasi thriller, è lei l’autentica “città del male”.

Cosa rappresenta la scrittura per lei?
La scrittura, i libri cosa sono, cosa possono essere? Un semplice sfogo? Il bisogno irrefrenabile di raccontarsi, di crearsi una propria ed inattaccabile sfera di vita? Una fuga verso quell’ignoto, verso quella dimensione “altra” rispetto alla misera realtà quotidiana e sociale, cui tutti tendiamo, disperatamente, consapevoli però che si tratta di una mera illusione. Eppure non possiamo fare a meno di mantenere la porta socchiusa sull’ultima flebilissima speranza.
I personaggi dei miei libri costituiscono davvero una parte di me. Ed in effetti, pur vivendo di vita propria, si sono impossessati delle mie angosce, di ciò che rimane delle mie speranze, dei miei pensieri più intimi, della logica dei miei pensieri, di ogni mia fibra. A mia volta, io condivido le loro vicissitudini, percepisco la realtà attraverso i loro sensi, mi sostengo sulle loro gambe, in una simbiosi, una complicità assoluta. Io vivo in loro e loro in me. Ognuno ha bisogno dell’altro per sostenersi, per continuare a lottare ed a sperare. Per questo, i miei libri sono anche, in certa misura, “autobiografici”, pur nella trama del genere.

Uno scrittore a cui è più legato?
L’unico grande maestro, da cui non si può prescindere è Howard Phillips Lovecraft. Fra i viventi, il migliore scrittore di noir è sicuramente Jo Nesbo, ma qui stiamo parlando di un livello inarrivabile.

Tre aggettivi per descriversi?
Sincero, frugale, timido.

 

Claudia Crocchianti

Giornalista pubblicista e scrittrice

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