Stagno – Claire-Louise Bennett

Tutto questo è insensato, ho pensato, e per nulla lusinghiero; smetti subito. Ma non ho smesso perché ero troppo curiosa di scoprire che sarebbe cambiato se avessi proseguito.

È più o meno quel che si avrebbe la tentazione di pensare dopo appena poche pagine di lettura dello strano libro di esordio di Claire-Louise Bennett, pubblicato in Italia da Bompiani con il titolo di Stagno (2019) e tradotto magistralmente da Tommaso Pincio.

Strano, perché è per sua natura impossibile da ascrivere al genere del romanzo – nessuna trama – e anche a quello del racconto, sebbene le sezioni del testo, una sorta di capitoli dalla lunghezza anche molto variabile, possano essere lette come degli exploit narrativi di tematica varia accomunati da identità di luogo e identità di voce narrante.

Questa voce narrante, femminile e iperconcentrata in se stessa, si rivolge colloquialmente e con andamento concentrico a un ascoltatore, o lettore, che in lingua originale resta ambiguo, indicato semplicemente dallo you inglese: in traduzione è un “tu” che lascia spazio all’immaginazione.

La protagonista è una donna di cui sappiamo molto poco, a parte il fatto che si è trasferita in un cottage sulla costa occidentale dell’Irlanda, in aperta campagna. Ci sono dei vicini, ma vengono criticati, c’è una città che si può raggiungere in bicicletta, ma in proposito viene detto che «le infrastrutture basilari sono piuttosto scadenti ovverosia, per esempio, che il trasporto pubblico è arretrato, sporadico e diciamo pure uno schifo totale».

Lei è senz’altro colta, di una cultura eclettica, ma non disdegna cose terrene e concrete come un buon drink, il giardinaggio, o le armocromie in cui si diletta a disporre ortaggi e frutti della terra nella creazione di estetiche e multicolori nature morte (o visionarie insalate). Le piace esplorare sin nei più reconditi e infinitesimali angoli una qualsiasi idea che le baleni in testa, facendo di un pensiero o di un dubbio una gigantografia dell’ossessione ove aggirarsi e avvitarsi per intere pagine, rivoltando un concetto in maniera tanto minuziosa da dissezionarne anche gli aspetti che non sembrava possedere.

Le piace ricevere amici o frequentanti spesso di sesso maschile, che a seconda della situazione le risolvono problemi oppure le complicano la vita: in quest’ultimo caso la soluzione è ricorrere all’alcol, in grado di colmare quel momento terrificante in cui l’altra persona, come ad un esame, viene scrutata dagli occhi della lucidità e bocciata per la sua banalità, che forse era imputabile solo alle circostanze, alla timidezza, o al fatto che la conversazione fosse ancora acerba.

Qui nel cottage che lei abita senza in realtà esserci del tutto, gli oggetti inanimati mangiano lo spazio sia mentale che fisico, inserendosi con una prepotenza plastica al centro della scena: sono loro i personaggi, diventano qualcosa di molto diverso da un’ambientazione, sono delle manifestazioni terribilmente concrete dell’esistenza quotidiana. Contrariamente a quel che di solito accade in letteratura, non hanno bisogno di alibi per essere descritti, né di chissà quale fine superiore. Sono lì fine a se stessi, simulacri terribilmente privi di soprannaturale.

È proprio la perdita di soprannaturale della vita, del suo senso di mistero, di quella romantica incomprensibilità il problema sul quale la scrittrice, che proviene dal teatro post-drammatico, punta il dito attraverso quest’opera decisamente coraggiosa: descrivere gli andirivieni interiori di una coscienza quasi certamente turbata in maniera così priva di filtri sembra voler comunicare come un ribaltamento del punto di vista, non un protagonista classico che tende a modificare lo spazio in cui agisce, ma una voce narrante che si lascia volontariamente assorbire dalle cose intorno, quasi scomparendoci dentro.

I momenti più sentiti del libro sono l’episodio del racconto nel racconto, in cui la protagonista descrive un libro che sta leggendo, ma confidando di averne senz’altro omesso o modificato i dettagli (tanto quel che le importa sono le impressioni che la lettura ha prodotto su di lei, non di farne un resoconto accurato o veritiero), e quello della tempesta, in cui il personaggio femminile si rivolge con teneri accenti a una tempesta che vede avvicinarsi dalla finestra, mentre fa il bagno.

Un linguaggio artificiale e artificioso, cavilloso, che si nutre di cose, di incisi, di circonvoluzioni, diventa il simbolo di questa strana alienazione. Un’alienazione derivata, più che dall’isolamento, dalla caduta totale dell’antropocentrismo. Posto in ombra l’individuo, ogni cosa riacquista una corporeità rumorosa, straniante, non consueta, che fa dire alla protagonista: «Per qualche attimo ho distolto gli occhi dalle pagine in modo da avere l’opportunità di provare un po’ di quel che deve aver provato lei quando guardava il proprio viso con la stessa attenzione che può portarci a piombare con gli occhi sulla corteccia di un albero, la superficie di una pietra, la buccia di una pesca e in quei pochi attimi è stato come se le pupille diventassero tunnel e d’un tratto venissi risucchiata all’indietro».

Decisamente spiazzante e innovativo, questo esordio si può considerare una sorta di esperimento, un viaggio nella mente di una persona senza nulla di onirico ma con molto del meccanismo. Sfogliando le pagine nel progredire della lettura, l’attesa di qualcosa che non succede si fa quasi assordante.

In fondo, per dirla ancora una volta con la narratrice, «a rendere splendida una festa non sono forse, oltre ai presenti, anche gli assenti e chi pensa che dovrebbe esserci?».

Stagno
Claire-Louise Bennett
Bompiani, 2019
Pagine 160
Prezzo € 15,00

Teodora Dominici

Articolista, collaboratrice editoriale free-lance e scrittrice in pectore